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Home ›Sempre più in nero - Cresce il lavoro nero ma quello "in regola" non se la passa meglio
La menzogna è sempre stata un irrinunciabile strumento per rafforzare il potere delle classi dominanti, e la borghesia lo ha affinato e potenziato al massimo grado. I suoi mezzi di comunicazione di massa hanno fatto della stravolgimento della realtà una pratica sistematica, amplificando esageratamente le "non notizie" e tacendo deliberatamente di fatti che, al contrario, toccano milioni di proletari. È il caso dei dati sul lavoro nero relativi al 2000, recentemente diffusi dall'ISTAT, l'istituto centrale di statistica. Una rapida passata per qualche telegiornale, tra servizi interminabili sui cani che improvvisamente (?) si mettono a mordere la gente e sul calendario della "siliconata" di turno, e nessuno ne parla più, nonostante - anzi, proprio per questo - il fenomeno del lavoro nero abbia dimensioni colossali. Quasi il 17% del prodotto interno lordo,197 miliardi di euro che sfuggono alle imposte, tre milioni e mezzo di lavoratori, vale a dire circa il 15% della forza-lavoro; ma il dato più significativo è che il lavoro irregolare è in crescita continua da una decina d'anni a questa parte, e interessa un po' tutte le regioni italiane - con punte massime in quelle meridionali - e i settori lavorativi, in modo particolare l'agricoltura, l'edilizia e i servizi, settori, cioè, in cui da sempre il lavoro "non in regola" ha grande peso (il Manifesto,24-09-'03).
Forse questi dati conforteranno e confermeranno certi economisti, magari "di sinistra", i quali da anni dicono che la disoccupazione è un fenomeno sopravvalutato, che le sue dimensioni sono, nei fatti, meno drammatiche di quanto non appaia dalle cifre ufficiali, perché il "sommerso" è un grande "datore di lavoro" e una grande fonte di reddito per milioni di persone. Se anche ciò fosse vero - e in parte indubbiamente lo è - non toglie nulla alla drammaticità e all'infamia di una condizione di super sfruttamento in cui scivolano strati via via crescenti di proletariato, a cominciare dai settori tradizionalmente più deboli: le donne, i giovani, gli immigrati.
Se l'Italia, per quanto concerne la diffusione del lavoro nero, si colloca tra i primissimi posti in Europa, è però sbagliato credere che questo fenomeno riguardi soprattutto (tra i paesi sviluppati) l'Europa mediterranea, perché non solo costituisce una quota tutt'altro che trascurabile del PIL di nazioni economicamente forti fuori e dentro l'UE, tra cui, per es., la Germania, ma anche in queste aree è in aumento costante dagli anni novanta del secolo scorso. Sono gli studi della borghesissima Organizzazione Internazionale del Lavoro - un ente dell'ONU - a registrarlo, così come registrano il peso esorbitante del cosiddetto lavoro informale in gran parte dei paesi della periferia capitalista, altrimenti detti (con forse involontaria, ma sicura ironia) in via di sviluppo. D'altronde, solo la presenza di ciò che rimane del diroccato "stato sociale" e delle entrate di altri membri della famiglia impedisce a migliaia e migliaia di lavoratori e lavoratrici in nero di non precipitare nelle stesse condizioni di vita esistenti nelle sconfinate favelas di Rio de Janeiro o di Calcutta. Non è un mistero per nessuno che a Napoli un esercito di ragazzi/e lavora per trecento euro al mese e per non meno di quarantacinque ore settimanali in qualità di commesse o di operaie nei laboratori-sottoscala del made in Italy ("taroccato" o meno, non ha importanza).
La diffusione a scala mondiale del lavoro sommerso e irregolare è un aspetto non secondario del più generale degrado delle condizioni complessive di esistenza che colpisce il mondo del lavoro salariato a livello internazionale, e fa risaltare - almeno agli occhi di chi non si accontenta delle apparenze - la pressoché totale accettazione del sistema capitalistico da parte del sindacalismo. In che senso? Per spiegarci bene, facciamo un passo indietro.
Se un tempo, tanto tempo fa, il sindacato era sorto dal seno stesso della classe operaia, allora tutta "in nero", per mettere dei freni allo sfruttamento padronale, perché non esistevano limiti d'orario, norme sulla sicurezza, pensioni, ecc., ma tutto era subordinato allo strapotere dei "padroni del vapore" - a cominciare dal salario, naturalmente - ora il sindacato percorre in senso inverso quel cammino, dando il suo fondamentale contributo per avvicinare le condizioni dei lavoratori regolari a quelli "in nero". Oggi, molti cosiddetti antagonisti, di fronte al finto radicalismo dell'attuale CGIL, sembrano dimenticare che quest'ultima, assieme a CISL e UIL, ha firmato di tutto, ha sostenuto quei governi che hanno letteralmente devastato il mondo del lavoro dipendente, imponendogli dosi così massicce di precarietà che sono solo un po' meno peggiori del lavoro nero allo stato puro. Il bello è (si fa per dire) che spesso e volentieri quegli accordi infami sono stati giustificati affermando che servivano a far emergere il lavoro nero, mentre in realtà hanno concesso ai padroni delle opportunità di sfruttamento dei lavoratori regolari e riduzioni fiscali prima insperate. C'è stato un periodo in cui questi contratti - che prevedono salari da miseria, orari di lavoro semi-schiavistici, e via dicendo - venivano chiamati proprio "contratti di emersione": ci voleva poco a capire (e, infatti, non è una questione di intelligenza, ma di schieramento di classe) che tali contratti avrebbero costituito un ulteriore punto di riferimento per la compressione dei salari e il peggioramento delle norme di lavoro degli altri lavoratori. Oggi, la legge 30 sul mercato del lavoro, partorita dal capocomico Berlusconi, è una specie di paese dei balocchi per il padronato, tali e tante sono le opportunità offerte ai padroni di prendere, usare e gettare a piacimento i lavoratori; ma la strada è stata tracciata dalla legge Treu (governo Prodi con l'appoggio di Rifondazione), dai vari Patti di Natale, dai numerosi contratti di categoria siglati al tempo del centro-sinistra.
Il risultato lo viviamo tutti i giorni in fabbrica, in ufficio, sui posti di lavoro in generale, e le moderate considerazioni dell'ISTAT non fanno altro che confermare quanto abbiamo sempre detto: "la tendenza alla flessibilizzazione del lavoro, in termini di orario, durata e attivazione di nuove norme di contratti, non sembrano aver pienamente contrastato lo sviluppo del lavoro sommerso" (il Manifesto, cit.).
Se i sindacalisti avessero anche solo un po' di senso del pudore, dovrebbero passare il resto del loro tempo a chiedere scusa - con lotte vere - ai lavoratori, ma sarebbe come pretendere che Berlusconi si spogliasse della sua natura di ciarlatano...
cbBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
Ottobre 2003
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