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Home ›Abu Grhaib: la mela marcia è il capitalismo
La tortura è uno strumento per vincere la guerra
Le atrocità che siamo stati costretti a vedere sono sconvolgenti: uomini ridotti a bestie, uomini feriti nella loro dignità, uomini umiliati nelle membra e nello spirito, uomini su cui vengono sfogati gli istinti più miseri di menti contorte, uomini mutilati da carnefici spietati incapaci di qualsiasi sentimento che sia diverso dall'odio. Eppure tutto questo non è il risultato di qualche mente bacata, di qualche mela marcia che si annida tra le truppe americane, di qualche deviazione perversa sfuggita di mano ai comandi militari secondo la tesi sostenuta ufficialmente dal governo statunitense. Purtroppo si tratta di qualcosa di molto peggio. Quello che è successo agli iracheni, e che segue alle drammatiche violenze inflitte a Guantanamo ai prigionieri afghani, è qualcosa di troppo grande per essere il frutto dell'iniziativa trasgressiva di alcuni militari che hanno deliberatamente preso l'iniziativa dei disumani trattamenti di cui siamo stati testimoni. Già l'anno scorso negli Usa si era aperto il dibattito sull'uso lecito della tortura nei confronti dei terroristi, una tortura giustificata da interessi di sicurezza nazionale superiori a qualsiasi precedente diritto sancito in difesa della dignità umana. L'esercito dei favorevoli si era sbizzarrito nel trovare le più ampie giustificazioni all'uso della violenza contro un prigioniero indifeso e incapace di qualsiasi reazione: ciò sarebbe servito a impedire altri atti terroristici e quindi a evitare altre uccisioni di innocenti, ciò sarebbe servito a estorcere verità e confessioni che avrebbero permesso di rafforzare la lotta della democrazia e della civiltà contro l'autoritarismo e la barbarie, ciò solo avrebbe permesso di ottenere quelle informazioni che avrebbero permesso di sconfiggere il cosiddetto impero del male. Così la tortura è stata di fatto legalizzata. Le conseguenze non hanno tardato a giungere; prima Guantamano, poi, dopo poco tempo, la replica nella terribile prigione irachena cui ha fatto seguito una campagna di informazione e di diffusione delle immagini che devono far riflettere. C'è una logica in questi episodi che non può essere spiegata con le semplicistiche e comode argomentazioni dell'establishement americano. Si tratta invece di qualcosa di più: della strategia del terrore contro chiunque voglia mettersi contro il potere americano a cui è speculare quella delle decapitazioni praticata da quelle borghesie arabe sue nemiche. Episodi di così vasta portata, episodi che si ripetono con rigorosa scientificità non possono che essere il risultato di un piano che trova ispirazione dalla durezza dello scontro e dall'importanza della posta in gioco, posta da noi descritta innumerevoli volte e che ora non vogliamo ancora rimarcare. Quando la crisi del sistema capitalistico innalza il livello di scontro, quando la lotta per la supremazia economica diventa questione di vita o di morte, quando il capitale nella sua brama di profitti è costretto a trasferire la competizione dal piano economico a quello militare, ecco che allora la violenza diventa la regola. Non si tratta allora solo di forza militare scatenata tra gli eserciti ma di brutalità che si scagliano contro le popolazioni civili, contro gli indifesi, contro gli inermi, contro gli innocenti. Le guerre imperialiste, soprattutto dalla seconda guerra mondiale in poi, hanno drammaticamente mostrato come in simili frangenti storici la violenza debordi oltre ogni limite e divenga lo strumento d'eccellenza per imporsi all'avversario coinvolgendo le popolazioni civili nella strategia del terrore. Accanto a questo le torture, le violenze perverse contro i prigionieri, gli stupri nei confronti delle donne del nemico, gli atti di sadismo perpetuati nella totale impunità, gli accanimenti psicologici e fisici contro l'avversario. Questa è la guerra, sia ieri sia oggi. Ecco che allora si trova una spiegazione al raccapricciante episodio della decapitazione del cittadino americano, un assassinio che è stato addirittura ripreso con la videocamera e fatto vedere al mondo intero via internet dai suoi stessi esecutori. Non è forse questa la stessa violenza disumana e ripugnante dei carnefici americani inflitta ai prigionieri iracheni? Non è forse la replica, sull'altro fronte, della stessa violenza scatenata dallo scontro per il controllo del crocevia mondiale del petrolio?
Anche l'uso cinico delle immagini fa parte di questo crescendo di barbarie e risponde alla logica di abituarci, di assuefarci all'uso delle atrocità. Anche questo può servire a preparare le masse alle future violenze, a caricarle di un odio che potrà tornare utile quando si tratterà di coinvolgerle direttamente nello scontro.
I comunisti non possono che denunciare questi crimini. Essi non possono che indicare alle masse proletarie l'origine di queste atrocità ammonendole di non farsi intrappolare dalle ipocrite argomentazioni che puntano il dito contro gli esecutori materiali dei delitti salvaguardando gli occulti registi che dietro le quinte pianificano le guerre e le strategie del terrore. Queste terribili vicende sono il frutto malefico della violenza che il sistema capitalistico oggi usa per condurre la sua lotta e imporre le sue leggi e la prova che è questo sistema che va combattuto senza se e senza ma non solo questo o quel fronte dell'imperialismo
clBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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