Il welfare alle strette

Fra tanti poveri e pochi, ma potenti, ricchi

Gli “scienziati delle Finanze” si spremono le meningi attorno alla sostenibilità dell’intervento pubblico nel cosiddetto sociale, con bilanci statali prossimi al collasso. Situazioni patologiche, con risorse insufficienti a tamponare le urgenze di assistenza, sanità, pensioni, mercato del lavoro (o meglio del non-lavoro); un quadro drammatico, nonostante la spesa sociale in Italia sia pari al solo 26,7% del Pil (media europea 26,9%).

Per i cervelloni stipendiati dal capitale si sconterebbero politiche sbagliate. Ma dagli alambicchi degli stregoni esce solo aria fritta, col vecchio ritornello di un sostegno al “reddito” di chi non arriva a fine mese. Già, come “rinforzarlo”? Spostando - si dice - “dai beni individuali al consumo sociale una parte della domanda aggregata, attraverso un’apposita politica fiscale”. Ma dai beni di chi? Scartando i redditi medio-bassi (riducendoli si avrebbe un altro calo dei consumi, depressivo per l’economia capitalista) rimangono i ben noti nomi. A proposito, l’Istat segnala (dati 2008) insopportabili sperequazioni: al 20% delle famiglie più povere va solo l'8,3% del reddito totale, mentre al 20% delle più ricche va quasi il 40% (esattamente il 37,5%). Questo calcolando un reddito medio famigliare annuo di ben 29.606 euro, 2.467 al mese. Cifre “decentrate”, come ammette l’Istat che poi divide le famiglie in due metà, una ferma a 24.309 euro (circa 2.026 al mese) e l’altra con entrate superiori. Per la Banca d'Italia, nel 2008 la metà più povera della popolazione possedeva il 10% della ricchezza nazionale, mentre il 10% di quella più ricca deteneva il 44%. Quanto alle tasse (indagine Ires) il fisco ha prelevato dai salari degli operai - tra il 2002 e il 2008 - 1.182 euro.

I tagli alla spesa pubblica diventano necessari per “galleggiare” nell’attesa di “riprendere la via dello sviluppo”. Inevitabile il “degrado dei servizi”, secondo una “logica finanziaria” che impone rigide leggi. Così le prestazioni assistenziali, pensionistiche e sanitarie scendono di anno in anno, di pari passo con la precarizzazione del lavoro e l’abbassamento dei salari e del loro potere d’acquisto.

Ma i “rapporti distributivi” vanno rispettati - predicano i… riformatori; bisogna stare entro i “limiti del sistema” ridimensionando un eccessivo Stato sociale insostenibile. Per addolcire la pillola si sparge fumo attorno al ritorno di una politica dei redditi, per una “una migliore equità distributiva”, pur sempre entro quei rapporti limitati…

Sono stimati in quasi 4 milioni i lavoratori precari con compensi da fame, finché durano. Per gli “espulsi” da fabbriche e uffici, la cassa integrazione in deroga copre solo i lavoratori standard delle imprese minori e non quelli a termine né a progetto o con partite Iva. Una perversa tipologia di contratti come sola alternativa per milioni di giovani; con la “riforma” dell’istruzione che va a ghettizzare chi, per nascita e ambiente sociale, è escluso dalle “pari opportunità” offerte dalla società borghese. Televisione e stampa alimentano l’illusione di ricette miracolose: basterebbe stimolare investimenti nei settori ad alta tecnologia con possibilità di sviluppi competitivi. Intanto, gli appelli agli imprenditori, perché dimostrino adeguate… “vitalità”, escludono quindi un aumento delle tasse a “lor signori” (un toccasana caro alla farmacopea riformista!)

La ricchezza privata, concentrata in poche ma potenti mani, non si tocca; anzi, si va in galera - oggi per chi si mette in testa strane idee, e al muro - domani - per chi volesse farlo! Idem per imposte patrimoniali (in definitiva solo solletico per il capitale finanziario) alla faccia di un altro mito, quello del “risanamento del ciclo risparmi-investimenti”. Così, la spesa pubblica “si riqualifica e si modernizza” con tagli e rinunce obbligate per salvare un più giusto welfare, a rimorchio della crisi e al servizio di una illusoria ripresa economica. Solita musica: sacrifici e ancora sacrifici perché il bastimento non affondi e nei saloni di prima classe lussuosamente imbanditi possano continuare le gozzoviglie borghesi, brindando al dio capitale.

Per finire, visto quel che accade in Fiat, i movimenti del capitale seguono una “legge fondamentale” per la sua accumulazione-conservazione, la quale, contrariamente ha quel che scrive un… “quotidiano comunista” come il Manifesto, ha un unico modello: mezzi di produzione sempre più sviluppati in qualità (tecnologia avanzata) e quantità richiedono un impiego di lavoro vivo sempre più ridotto; proporzionalmente diminuisce il plusvalore (profitto e rendita) che dovrebbe “ripagare” il capitale impiegato. Constatazione elementare, ma non certo per l‘intellighenzia borghese lanciata verso il baratro, convinta di sfuggire a questa tendenziale caduta del saggio di profitto riducendo continuamente la quota di lavoro per unità di prodotto. La “gara” competitiva si fa sempre più feroce, senza esclusione di colpi proibiti. E il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa la quota di lavoro vivo da cui può estrarre plusvalore. L’aumento della produttività dovrebbe raggiungere le più alte vette per dare un profitto - realizzabile? - al capitale: ma questo sarebbe comunque il crollo finale, poiché il capitalismo non troverebbe più acquirenti solvibili per le merci prodotte da un sempre minor numero di operai e di salari.

Per questo, si cercano, tra i professionisti della politica, autori di un progetto di redistribuzione della ricchezza capace di interessare - per la sua salvezza - la “società industriale italiana”, la società borghese e capitalista. Fino ad invocare un aumento della massa dei salariati… Ma bravi!

DC

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.