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Home ›Rivolte in Maghreb - Solidarietà ai proletari in lotta
Tutto il Maghreb è in fermento. In Tunisia le rivolte stanno incendiando tutto il paese. Dimostrazioni di piazza si sono avute in Algeria, Siria e Giordania. Per il momento è la situazione tunisina quella che appare essere più effervescente. Il fatto certo è che le lotte spontanee, determinate e violente hanno trovato una repressione ancora più determinata e violenta. Lo scenario all’interno del quale sono montate le lotte è quello della crisi internazionale che non ha salvato nessuno, tanto meno i paesi ad economia debole. Lo stesso sta avvenendo in Algeria e in Giordania, anche se a livelli di intensità diversi, mentre in Marocco ed Egitto la situazione, pur non precipitando, è allo stesso livello di tensione latente, se non peggio. Nello specifico la rabbia che ha dato il via alle manifestazioni di piazza si è sfogata contro l’aspetto dittatoriale del potere di Ben Ali, contro la corruzione di cui è portatore e massimo interprete e contro la cricca di potere che gravita attorno alla figura del Presidente. Alla base però, quale propellente, ci sono i problemi della disoccupazione e del caro vita. La prima secondo le statistiche ufficiali si è stabilizzata al 14%. In realtà è quasi il doppio e arriva al 35-40% tra i giovani. Il secondo fa si che le famiglie degli operai, degli impiegati privati e statali non arrivino a metà del mese. La povertà è diventata miseria, le speranze per il futuro sono crollate, la realtà è fatta di fame e disperazione crescenti.
Tra i proletari chi ha un lavoro non riesce a mantenere la famiglia, chi non ne ha cade nel girone dei dannati con poche possibilità d’uscirne. Anche il ceto medio vede sbriciolarsi le già magre condizioni di vita. L’impiego pubblico, sino a pochi anni fa fornitore di posti di lavoro certi e duraturi nel tempo, oggi ridimensiona drasticamente i suoi organici. Impiegati statali, avvocati, giovani diplomati e laureati sono in mezzo alla strada e devono competere con altri disoccupati per un posto di lavoro qualsiasi. Il ridimensionamento del pubblico impiego (le stesse misure sono state prese o annunciate in Inghilterra, Francia, Spagna, Irlanda e Italia), la proletarizzazione del ceto medio, oltre all’intensificazione dello sfruttamento nei settori chiave dell’economia, come quello energetico, sono il segno tangibile dei morsi della crisi e delle ragioni della rivolta.
Le lotte si sono espresse spontaneamente, senza cioè una guida politica e una programmazione tattica. I Sindacati (UGTT) sono stati colti di sorpresa, hanno rincorso la situazione, deplorato, a cose fatte, l’eccesso di violenza da parte della Polizia ma, contemporaneamente, hanno lamentato gli “eccessi” della spontaneità delle manifestazioni, invocando calma e fiducia nelle promesse (300 mila posti di lavoro) del Presidente. Prima dei tragici avvenimenti non si erano accorti di nulla, poi il solito lavoro di pompieraggio
La repressione è stata brutale. La polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti. Non ha esitato ad uccidere perché questo era l’ordine. Il Governo tunisino non poteva permettersi il lusso di consentire il prodursi di manifestazioni che avrebbero incendiato il paese, anche se questi conti non sempre tornano e, in alcuni casi, possono produrre effetti contrari. Sempre, ma soprattutto durante le crisi economiche, l’imperativo è quello di salvare ad ogni costo il capitale, di fare argine attorno alle sue necessità di sopravvivenza, di convincere con ogni mezzo i lavoratori che ai sacrifici non c’è alternativa. Prendere o lasciare, altrimenti la mannaia delle repressione calerà pesantemente senza risparmiare nessuno. I cento e più morti ne sono una drammatica verifica.
Non solo, il Governo di Tunisi ha messo in atto una strategia di delegittimazione delle lotte. Chi scende in piazza, chi manifesta, chi compie atti di violenza contro il cose e contro gli interessi generali della società, leggi del capitale, è un terrorista al soldo di qualche paese straniero interessato alla destabilizzazione politica della Tunisia, quindi degno soltanto di essere represso e isolato dal resto della società. E’ la classica tattica borghese, sempre valida, già adottata in passato in Europa e, in modo particolare in Italia, che si ripropone sotto un’altra latitudine con i medesimi intenti: bloccare ogni forma di opposizione identificandola con il “male” di turno che, come tale, deve essere combattuto con ogni mezzo, violenza compresa.
Invece le lotte devono continuare, collegarsi nei vari settori. Devono dare vita a comitati di sciopero e di lotta, (pare che qualcosa del genere sia sorto e che alcuni militari abbiano abbandonato l’esercito per aggregarsi ai manifestanti), essere un esempio anche per i proletariati e disoccupati di tutto il Maghreb, dal Marocco all’Egitto, al Medio oriente e chiedere a questi proletariati la loro solidarietà e unità d’intenti quale pre condizione ad un’azione comune di lotta. Tutto ciò è certamente difficile se non addirittura improbabile dato il deserto politico di queste realtà, anche se la desertificazione politica ha raggiunto anche i paesi del vecchio capitalismo come l’Europa e gli Usa. Proprio per questo è giunto il momento di concentrare gli sforzi sulla nascita di avanguardie politiche che inizino ad essere un punto di riferimento per queste lotte, affinché non si esauriscano nello scoramento o nella repressione senza lasciare traccia di sé. E’ l’ora che il proletariato internazionale, la dove è più colpito, dalla Grecia alla Tunisia, dalla Spagna all’Algeria, dall’Inghilterra agli Usa si incammini sulla strada della ripresa della lotta di classe, strada che deve percorrere con la sua avanguardia politica senza la quale ogni forzo, ogni anelito di rivolta rimarrebbero arginati nell’ambito capitalistico, repressi o riassorbiti al sistema a seconda delle linee di comportamento espresse dall’organo di tutela degli interessi di classe, cioè dallo Stato borghese. La vicenda di Bel Ali insegna. Dopo aver tentato di mantenere il potere con una pesantissima repressione è fuggito in Arabia saudita con una tonnellata di oro lasciando libero il campo ad un rimpasto di governo, con i soliti noti che si disputano il potere e con l’esercito che pretende di giocare un suo ruolo nel prossimo Governo di unità nazionale. Si preannunciano cambiamenti che lasciano le cose esattamente come prima se le rivolte non si indirizzano verso nuovi orizzonti politici. Il pericolo è sempre lo stesso: che le masse affamate e finalmente in rivolta, ascoltino le sirene della “democrazia” laica, dell’anti dispotismo fine a se stesso, del fondamentalismo islamico, come in Algeria o in Egitto, di entrambe come in Giordania, perdendo di vista quello che dovrebbe essere l’inizio di una risposta di classe al capitalismo in qualsiasi veste si presenti.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #02
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