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A un anno dall’uragano Katrina New Orleans è ancora da ricostruire
Ad un anno dal passaggio dell’uragano Katrina, New Orleans è ancora quasi tutta da ricostruire. Il tempo trascorso non è stato sufficiente per ripristinare i servizi essenziali e garantire a centinaia di migliaia di persone di tornare nelle proprie case. Interi quartieri, abitati nella stragrande maggioranza da proletari di colore, sono ancora senza luce, acqua e con la fogna che sgorga a cielo aperto. In compenso la stampa statunitense ci parla della ripresa delle principali attività produttive della città e di come i quartieri della grande borghesia siano stati tutti ripuliti ed i servizi tornati a funzionare meglio di prima.
Così come durante i soccorsi sono stati abbandonati al loro destino centinaia di migliaia di proletari privi di mezzi di trasporti, anche nella ricostruzione della città emerge limpidamente la frattura di classe che divide la società capitalistica e statunitense in maniera particolare. Da un lato i proletari che non hanno avuto la possibilità di salvarsi dall’inondazione causata dal crollo delle dighe di protezione della città e che oggi non possono tornare in quanto non ci sono fondi per avviare un programma di ricostruzione dei propri quartieri, dall’altra parte della scala sociale una borghesia sempre più rapace che pur di difendere i propri interessi di classe spinge nel baratro della disperazione centinaia di migliaia di proletari della città della Lousiana.
I gravissimi ritardi che si registrano nella ricostruzione di New Orleans sono il risultato della crisi strutturale che ha colpito l’economia statunitense negli ultimi decenni. Una crisi economica che trova le proprie origini nelle contraddizioni capitalistiche e dalla quale il gigante americano tenta di tirarsi fuori attaccando quotidianamente le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice e nello stesso tempo imponendo al resto del pianeta il proprio dominio imperialistico. Un predominio basato sia sul mantenimento del ruolo giocato dal dollaro nel sistema finanziario e monetario internazionale, ma anche sul controllo militare delle aree strategicamente più importanti per la gestione della rendita che deriva dal determinare un prezzo del petrolio sempre più alto rispetto a quello che si determinerebbe se non ci fosse lo zampino statunitense a determinare un suo aumento.
Gli Stati Uniti, grazie alla funzione svolta dal dollaro nel mercato del greggio, si trovano nella invidiabile condizione di far confluire nelle proprie casse ingenti risorse finanziarie attraverso l’aumento del prezzo del petrolio. Infatti se il prezzo del petrolio aumenta, magari attraverso la guerra in Afghanistan oppure radendo al suolo l’Iraq, aumentano di conseguenza le richieste di dollari che servono per acquistare l’oro nero, dollari che vengono stampati dalla banca centrale americana, Federal Reserve, e che nella loro stragrande maggioranza non rientreranno sul territorio statunitense ma circoleranno sui mercati internazionali, senza pertanto determinare spinte inflazionistiche nell’economia americana. Questo meccanismo permette agli Stati Uniti di stornare dal resto del mondo, stampando semplicemente della carta, una cifra annua pari a circa 700 miliardi di dollari che servono a finanziare lo spaventoso deficit del bilancio federale e a compensare il sempre crescente deficit della bilancia commerciale.
Gli ultimi dati sulla bilancia commerciale confermano ancora una volta che l’economia americana non è più in grado di sostenere l’agguerrita competizione sui mercati internazionali. Il disavanzo commerciale di giugno 2006 è stato a dir poco enorme: 64,8 miliardi di dollari, appena venti in meno rispetto al record fatto registrare nel precedente mese di maggio. Una lettura un po’ più attenta dei dati della bilancia commerciale statunitense fa emergere come il disavanzo americano interessi anche i prodotti ad alta tecnologia: infatti mentre le esportazioni di questi prodotti sono stati pari a 22,2 miliardi di dollari, le importazioni di merci ad alto contenuto tecnologico provenienti dal resto del mondo sono stati di ben 24,7 miliardi di dollari, con un disavanzo netto di 2,5 miliardi di dollari. Quest’ultimo dato smentisce la tesi di coloro che sostengono che l’economia americana, pur in presenza di un enorme deficit commerciale, mantiene un vantaggio tecnologico rispetto al resto del mondo. Oggi non è più così, tanto che per mantenere in equilibrio il sistema americano la borghesia statunitense non può far altro che imporre al resto del mondo il proprio dominio imperialistico basato, come dicevamo più sopra sul ruolo del dollaro e sulla gestione della rendita petrolifera.
Se consideriamo ancora che il deficit commerciale con i paesi dell’Opec è stato nel mese di giugno di 10,2 miliardi di dollari, possiamo ben capire quali siano in ogni caso enormi i vantaggi per l’economia americana nel favorire un prezzo del petrolio più alto. Infatti se è vero che gli Stati Uniti importano petrolio per una percentuale nettamente maggiore rispetto al passato, alimentando in tal modo il deficit commerciale, dall’altro un alto prezzo del petrolio garantisce una rendita nettamente maggiore rispetto al valore del deficit con i paesi esportatori di greggio. Infatti mentre il deficit con i paesi Opec è mediamente di 10 miliardi di dollari la rendita mensile derivante dal fatto che il prezzo del petrolio si esprime in dollari è molto vicino ai sessanta miliardi di dollari.
L’aumento del prezzo del petrolio non è quindi all’origine della crescita del deficit commerciale e in ogni caso non determina una perdita di competitività dell’economia statunitense sui mercati internazionali. Se il prezzo del petrolio aumenta è vero che crescono i costi per le imprese americane, ma è altrettanto vero che crescono in pari misura i costi per le imprese europee, cinesi o giapponesi. Un alto prezzo del petrolio incide nella stessa misura sulla competitività delle imprese dei diversi paesi, in quanto unico è il suo prezzo sui mercati internazionali.
La borghesia americana da un lato diventa sempre più aggressiva sul piano internazionale cercando di imporre al resto del mondo i propri interessi imperialistici, sul fronte interno attacca costantemente le condizioni del proletariato. Agli inizi del mese di settembre 2006 sono stati pubblicati i dati di una ricerca condotta dal The economy policy Institute, un ente no profit statunitense, sull’andamento dei salari negli ultimi decenni. I dati che emergono dalla ricerca testimoniano del crescente impoverimento del proletariato americano: infatti nell’ultimo decennio mentre l’economia è cresciuta del 33,4%, i salari per ora lavorativa sono cresciuti nello stesso periodo solo dell’11%. Se si prende in considerazione il periodo che va dal 1979 al 2005, i dati della ricerca ci indicano che la produzione è aumentata del 69%, mentre l’aumento degli stipendi è stato nello stesso periodo di un misero 8,9%.
Le contraddizioni dell’economia statunitense sono di una tale portata che la borghesia americana ha solo una strada da percorrere: continuare nel massacro sociale contro la propria classe lavoratrice e imporre al resto del mondo il proprio dominio imperialistico, mentre ciò accade si profilano all’orizzonte fronti imperialistici contrapposti che non sono più disposti a sopportare il peso del signoraggio del dollaro.
lpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #9
Settembre 2006
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