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Per opporsi alla guerra imperialista non ci sono alternative all'internazionalismo e al disfattismo rivoluzionario
Secondo gli intellettuali, i politici e i media borghesi, l'implosione dell'Unione Sovietica avrebbe regalato all'umanità un periodo di pace e di prosperità senza precedenti. All'indomani del crollo del muro di Berlino, qualcuno pronosticò, addirittura, come possibili solo scontri fra "civiltà diverse".
Le chiamano, a seconda delle convenienze e delle località in cui scoppiano, ora guerre di religione, ora guerre per l'autonomia di questa o quella regione, ora guerre tribali e tutte guerre locali per significare che si tratta di episodi circoscritti frutto di contrasti interni alle aree interessate e senza alcuna relazione con la crisi del ciclo di accumulazione capitalistica su scala mondiale; eppure basta guardare una cartina geografica per accorgersi che in realtà questo macabro rumore di ossa maciullate, che la macchina della guerra alimenta senza sosta al pari dell'inquinamento acustico da traffico urbano, è figlio di tutto tranne che della diversità fra le varie "civiltà" che fortunatamente l'esperienza umana ha fin qui prodotto.
Un'analisi appena un po' più attenta di quella che ci viene quotidianamente propinata dalla borghesia internazionale, non può, infatti, non rilevare che si tratta di conflitti che hanno quasi sempre lo stesso comune denominatore: il petrolio e le sue porte e che anche le poche eccezioni sono tali solo nel senso che in ballo c'è il controllo di una qualche altra materia prima o di qualche particolare produzione come è accaduto in Somalia per il controllo del mercato delle banane.
Il petrolio, il controllo delle materie prime, lo scontro per la conquista dei mercati sono stati anche in passato causa di un numero infinito di guerre e fra queste qualcuna anche di dimensioni maggiori di quelle attualmente in corso. Ciò, nell'area che continua a definirsi "di sinistra", anche in quella per tradizione a noi più vicina, induce: o a ritenere che essendo tutto dejà vu non c'è nulla di nuovo sotto il sole e/o che siano ancora attuali le analisi, le parole d'ordine, le tattiche e le strategie adottate dai partiti della Seconda e dalla Terza internazionale e a ignorare invece quella che resta tuttora la più grande lezione lasciataci dall'esperienza leninista che seppe far discendere da una corretta analisi del fenomeno imperialistico la più coerente opposizione alla guerra mediante la pratica del più rigoroso e conseguente disfattismo rivoluzionario.
Nei meccanismi del moderno dominio imperialistico, il controllo delle vie del petrolio, del petrolio stesso come quello delle più importanti materie prime non è importante solamente perché con esso si assicura la metropoli di rifornimenti a basso costo, ma soprattutto perché mediante questo controllo si può governare il processo di formazione del prezzo dell'oro nero e delle altre materie prime e quindi i processi di formazione e appropriazione della rendita finanziaria.
Per il fatto che il mercato del petrolio, come quello di tutte le materie prime, non si esprime, salvo rare eccezioni, nella moneta dei paesi produttori, ma nelle cosiddette valute forti soprattutto in dollari e che il mercato delle valute è diventato di fatto un solo unico grande mercato mondiale, chi possiede e governa queste valute si ritrova uno strumento di dominio di incredibile efficacia e potenza: basta una piccola oscillazione del prezzo del petrolio e, anche senza che se ne sia spostata una sola goccia, quantità enormi di ricchezza passano da una tasca all'altra.
Per questa ragione c'è chi pensa che, essendo il dollaro made in Usa, il nemico siano gli americani e perdendo di vista il sistema nella sua globalità, ripropone quella infausta e infelice tesi secondo cui bisogna distinguere fra i vari centri dell'imperialismo in base alla loro maggiore o minore potenza e che, per esempio nella fattispecie irachena, il proletariato di questo paese deve, semmai tappandosi il naso, in ultima istanza appoggiare la propria borghesia. L'antiamericanismo diventa così automaticamente antimperialismo e le divisioni di classe vengono annacquate fino a scomparire in categorie come "il popolo iracheno", le "masse arabe" quando non addirittura "islamiche"; per finire, come recentemente è capitato a qualcuno di questi strateghi da tressette, a invocare, in funzione antiamericana, il successo di "un'autentica jihad islamica" che, per il proletariato mondiale, essendo "il jihad la guerra santa... come dovere permanente sino al giorno in cui tutta la terra... cadrà in potere dello stato musulmano" (Enc. Treccani vol. XIX° ed. 1949) sarebbe di fatto la condanna alla sottomissione eterna alle leggi dello sfruttamento capitalistico.
Già l'approdo dell'ex Unione sovietica nel campo dell'imperialismo aveva definitivamente escluso ogni possibilità che le guerre fra una qualunque borghesia nazionale e uno dei due centri dell'imperialismo potessero, in assenza di una loro trasformazione in guerra rivoluzionaria, avere esito diverso dal rafforzamento dell'uno o dell'altro fronte imperialista. Ciò è divenuto ancor più vero oggi che l'affinamento dei meccanismi di appropriazione parassitaria del plusvalore ha consentito alle borghesie locali - e in special modo a quelle dei paesi petroliferi - di inserirsi strutturalmente in questi meccanismi, di parteciparvi a pieno titolo e di goderne i frutti al pari della borghesia della metropoli imperialista.
Dall'innalzamento del livello del prezzo del petrolio che si determina, per esempio, in conseguenza dell'embargo contro l'Iraq e dall'embargo stesso, ampi settori della borghesia irachena stanno traendo cospicui profitti e sicuramente non è Saddam Hussein e il suo clan che stanno patendo la fame e l'impoverimento progressivo. È dunque quantomeno una figura retorica quella che descrive le "masse arabe" o quelle "islamiche" un unicum indistinto che la guerra colpisce uniformemente. La guerra colpisce innanzitutto il proletariato di questi paesi e, a seguire, l'intero proletariato mondiale che è chiamato a produrre il plusvalore di cui in ultima istanza si sostanzia la rendita. Il meccanismo è talmente efficace che non c'è borghesia al mondo che abbia interesse a spezzarlo perché senza di esso ci sarebbe il blocco totale del processo di accumulazione su scala mondiale e paradossalmente, e contrariamente a quanto è accaduto fino ai primi decenni di questo secolo, sono proprie le borghesie dei paesi non industrializzati o periferici ad avere un più forte interesse a conservarlo visto che quelle borghesie metropolitane possono avvalersi anche di potenti apparati industriali. Esse sanno bene, infatti, che con gli attuali bassi saggi del profitto un processo di industrializzazione delle loro economie, fra l'altro mai decollato neppure quando il ciclo di accumulazione capitalistica era nella sua fase ascendente, non ha alcuna probabilità di successo e che quindi è solo attraverso l'investimento sul mercato finanziario dei dollari, e d'ora innanzi anche degli euro, ottenuti mediante la vendita del petrolio che possono accrescere i loro profitti e i loro capitali. Ciò è stato ampiamente confermato dalla crisi che ha travolto le cosiddette Tigri asiatiche e prima ancora da quella debitoria che ha messo in ginocchio l'intero continente africano, il Medioriente e l'America Latina. In tutte queste situazioni è emerso che la gran parte degli investimenti in loco era stata destinata alla speculazione in tutte le sue forme, mentre l'attivazione di processi produttivi si era verificata solo quando e laddove era possibile praticare le forme più violente ed estreme dello sfruttamento della forza-lavoro e per conto delle maggiori imprese transnazionali.
Le guerre locali, o comunque le si voglia chiamare, riflettono quindi solo e sempre lo scontro interimperialistico per il controllo del processo di formazione, gestione e spartizione della rendita su scala planetaria e sono dunque funzionali alla conservazione del sistema. Non riconoscere ciò, o riconoscerlo a giorni alterni a seconda che le bombe usate siano di marca statunitense piuttosto che europea, iraniana o saudita, di fatto comporta anche il disconoscimento della loro fortissima connotazione classista e la rinuncia a priori a qualsiasi tentativo di minare le basi su cui si fonda il moderno dominio imperialistico.
La crisi del ciclo di accumulazione capitalistica manifestatasi a partire dai primi anni settanta, i processi di mondializzazione dell'economia che ne sono conseguiti, la iperproduzione di capitale fittizio in funzione della dilatazione della rendita, lo scardinamento del mercato della forza-lavoro e la sua unificazione su scala planetaria hanno chiuso definitivamente tutta una fase storica e ne hanno aperta un'altra in cui l'internazionalismo e il disfattismo rivoluzionario non ammettono alternative se non l'accettazione supina di un mondo in cui assieme alla miseria e al degrado sociale bisognerà abituarsi anche alla permanenza di questo rumore di ossa maciullate prodotto dalla guerra imperialista in marcia da e per ogni angolo del pianeta.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 1999
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