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A proposito della manifestazione di Napoli - Supplemento web
Alcuni nostri compagni sono intervenuti alla manifestazione contro la precarietà e la disoccupazione, che si è tenuta a Napoli lo scorso 20 giugno. È stata una buona occasione, oltre che per distribuire la stampa, anche per verificare una volta di più il carattere estremamente dannoso del riformismo, specie quando si presenta sulla scena con un linguaggio apparentemente rivoluzionario; e la sua dannosità aumenta se riesce ad egemonizzare e/o a influenzare settori di classe che, sulla spinta del costante peggioramento delle condizioni di vita, hanno rotto o sono sulla via di rompere con la sinistra apertamente borghese. Il caso dei disoccupati napoletani (e non solo) ne è un esempio lampante. Infatti, una delle caratteristiche della manifestazione è che era molto meno “addomesticata” di quelle dei sindacati confederali, per la numerosa presenza di proletari che hanno dato vita a lotte reali, dunque a scontri non solo con i difensori della legalità borghese, ma anche con la politica profondamente antioperaia di CGIL-CISL-UIL.
Nel corteo si percepiva chiaramente l’incazzatura per una situazione sociale molto difficile, che interessa migliaia e migliaia di persone e che non mostra segni di cambiamento, se non in peggio; così come si toccavano con mano l’odio e il disprezzo verso un governo (e una classe politica in genere), che, esaurita l’epoca storica dell’assistenzialismo, non può far altro che macinare chiacchiere, prendendo per i fondelli chi non ha né il tempo né la voglia di scherzare. Ma tutto questo enorme potenziale di classe corre molto concretamente il rischio di andare completamente sciupato (se non lo è già), per l’assenza pressoché totale di un valido punto di riferimento rivoluzionario che sappia raccoglierlo e convogliarlo sui giusti binari di una coerente strategia anticapitalistica. È un dato drammatico, che accomuna il proletariato del mondo intero, da Napoli a Vorkuta a Djakarta, e che dovrebbe far pensare quanti, pur essendo orientati sulle posizioni dell’internazionalismo rivoluzionario, stanno ancora ai margini dell’impegno concreto, accontentandosi di guardare titubanti - e magari sconsolati - la borghesia mentre mena terribili bastonate su un proletariato che, come un pugile “suonato”, si fa pestare senza reagire. È dunque estremamente urgente il rafforzamento significativo del partito rivoluzionario, altrimenti - lo sottolineiamo di nuovo - le spinte spontanee della classe non possono che essere raccolte dal riformismo impotente e illusorio. Il movimento dei disoccupati napoletani non sfugge a questa regola. Quasi nessuna organizzazione (tra quelle presenti alla manifestazione) pone il problema, in prospettiva, dell’eliminazione rivoluzionaria del capitalismo, e alla sacrosanta rivendicazione ad una vita decente (ma verrebbe quasi da dire, semplicemente, ad un vita) la variegata galassia del riformismo radicaleggiante non sa offrire altro che vecchie politiche keynesiane, che la fase attuale del capitalismo non è più assolutamente in grado di ripristinare. Non ci addentriamo nella critica al riformismo, ma il fatto che il sindacalismo “autorganizzato” consideri il neoliberismo un’espressione soggettiva della “cattiveria” capitalistica e non un percorso obbligato della borghesia, la dice lunga sulle capacità di comprensione della realtà da parte di quell’ambiente politico. Se i disoccupati rivendicano giustamente il diritto di campare comunque, con o senza lavoro, mettendo in tal modo a nudo l’inconciliabilità degli interessi tra proletariato e società borghese, la sedicente autorganizzazione - ma anche certo internazionalismo... - è beatamente convinta che basterebbe una lotta sindacale un po’ più dura per ottenere il salario garantito per tutti - senza lavoro, precari, ecc. - senza cioè mettere in discussione le basi del capitalismo. Oppure, alla faccia delle tanto strombazzate anti-istituzionalità e radicalità, si aspetta che lo stato - sempre su sua pressione - promuova leggi a favore della riduzione dell’orario di lavoro o di una “Agenzia per il Sud con dotazione di risorse finanziarie straordinarie” finalizzate, state un po’ a sentire, “Alla ricostruzione del patrimonio produttivo - al - rilancio delle produzioni e dei sistemi strategici... una programmazione complessiva e qualitativa dello sviluppo del mezzogiorno, basato [...] sulla creazione di un settore industriale completo e non su segmenti marginali di esso” (1). Poveretti, i neoriformisti! Dicono pari pari quello che il PCI, con ben altro peso, ha ripetuto per decenni, con i risultati, per quanto riguarda lo sviluppo del Sud, che tutti conosciamo; l’autorganizzazione è diventata patetica, perché se negli anni ‘50 - primi ’70 la fase ascendente del ciclo di accumulazione capitalistica aveva permesso una parvenza di industrializzazione nel meridione, ora ciò che il capitale è in grado di programmare sono solamente il lavoro nero, i contratti d’area, il supersfruttamento di chi ha il “privilegio” di lavorare, dopo aver ridotto a rottami arrugginiti gran parte dei mega impianti industriali partoriti dalle varie programmazioni. A parte questo aspetto, quando mai un “antagonista sociale” (vero o presunto) si è preoccupato dello sviluppo economico di quello che dovrebbe essere il suo mortale nemico, cioè la borghesia? Ammesso e non concesso che si possa assistere al “rilancio delle produzioni e dei sistemi strategici”, ciò significherebbe nient’altro che il rilancio di alcuni settori dell’economia capitalistica, a meno che i “comunisti” (siamo a posto!) e gli anarchici animatori dei vari Cobas, CUB, FLMU ecc., non pensino che possa esistere un’economia neutrale o che, per migliorare la sorte dei disoccupati, occorra sostenere lo sviluppo economico del capitale. Se è così ( ma niente, dal loro volantino, ci dice il contrario) quasi quasi ci tocca rimpiangere gli anarchici di una volta, che almeno, nella loro confusione, mettevano il pepe al culo di nobili, preti e borghesi, con qualche “petardo” piazzato qui e là.
Ironia a parte, sottolineiamo, invece, che abbiamo potuto constatare un certo interesse per le nostre posizioni; è vero, non sono ancora le folle oceaniche, ma questi timidi segnali ci incoraggiano a proseguire su una strada non battuta da nessuno. E, probabilmente, è proprio l’originalità delle nostre posizioni a suscitare allo stesso tempo interesse, ma anche perplessità, soprattutto per quanto riguarda le cosiddette lotte economiche (per usare un vecchio linguaggio). Se noi riteniamo superato dal corso storico del capitalismo lo schema classico partito - sindacato, dove il secondo fa da cinghia di trasmissione delle parole d’ordine del primo; se riteniamo, in base all’analisi della realtà, che gli spazi per il classico rivendicazionismo sindacale sono ormai ridottissimi, ciò non significa nel modo più assoluto che sia finita la lotta di classe di parte operaia. Al contrario, oggi più che mai c’è bisogno di un risveglio massiccio delle lotte operaie, lotte che devono ripartire anche da quegli obiettivi che solo 15-20 anni fa sarebbero apparsi minimali, mentre oggi, per lo sbandamento pressoché totale in cui versa il proletariato, possono sembrare addirittura audaci. Per esempio, la lotta contro lo straordinario, contro l’intensificazione dei ritmi, contro la crescente pericolosità dei luoghi di lavoro, legata alla generalizzata compressione della forza-lavoro, lotte che coinvolgerebbero “garantiti” e precari, sarebbero già un primo segnale di “ritorno alla vita” del proletariato. Nonostante le accuse di astrattismo che ci vengono rivolte (non sempre in buona fede), sappiamo benissimo che la classe operaia può pervenire alla rottura rivoluzionaria solo se ha sperimentato in precedenza tutta una serie di scontri con la borghesia: per dirla con Marx, una classe operaia che non è capace di lottare per i suoi interessi immediati non è nemmeno capace (né degna) di fare la rivoluzione. Dunque, ciò che è finito è la funzione di qualunque sindacato “autorganizzato” o “rosso” che sia. Oggi più che mai i rivoluzionari conseguenti devono considerare le lotte proletarie, oltre che un modo per contrastare la permanente aggressione del capitale - momento difensivo e offensivo allo stesso tempo - l’occasione primaria per far trascrescere (e radicare) in senso anticapitalistico la coscienza proletaria. È troppo, facile chiedere un milione e mezzo al mese per tutti i disoccupati - allora, perché non due? - più difficile è far capire che la giusta lotta per poter vivere si scontra con le compatibilità capitalistiche, ma che la strada da prendere non deve allora essere quella della rassegnata passività, bensì quella dell’intensificazione della lotta stessa oltre, e a questo punto anche contro, ogni logica contrattual-sindacalista. Siamo contro gli schemi classici della tradizione del movimento operaio? Attenzione, che per paura di uscire dai suddetti schemi si rischia fortemente di diventare ottusi schematici, negando in tal modo la realtà quando questa smentisce le costruzioni teoriche tanto gelosamente coccolate.
Ultima annotazione. Durante il percorso del corteo sono stati bruciati numerosi cassonetti dell’immondizia, ma questa forma di protesta, attuata da veri proletari e - più spesso - da finti antagonisti, ci sembra decisamente controproducente. Normalmente sono le forze dell’ordine che intossicano i manifestanti con i lacrimogeni: perché gli dobbiamo rubare il mestiere? Non saremo per caso masochisti?!
(1) Vedi il volantino firmato da: s.in.Cobas, Comu, Sulta, Cobas Scuola, CUB, Flaiaca CUB, Flmu CUB, Ass. in Marcia, Coord. di Lotta Lsu. Se è possibile, quello delle RdB è anche peggio.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #7
Luglio-settembre 1998
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