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La fase russa della crisi del capitale
Un altro terremoto finanziario sta scuotendo in questi ultimi giorni i mercati internazionali. Ampiamente prevista dagli stessi economisti borghesi, la crisi russa si è abbattuta con tutta la sua violenza sul sistema monetario internazionale e sulle borse di tutto il mondo. Da molti mesi i commentatori economici più attenti indicavano nella Russia il paese nel quale era più probabile il manifestarsi di un crollo finanziario. Ma vista la situazione economica interna russa e lo scontro politico in atto tra le diverse fazioni della borghesia non era difficile pronosticare ciò che puntualmente si è verificato; è bastata una semplice dichiarazione di Soros, il quale a più riprese in passato ha invitato i “mercati” (leggi grandi investitori finanziari) a riequilibrare le quotazioni del rublo, per scatenare un vero e proprio uragano finanziario. Tutte le piazze borsistiche hanno fatto registrare pesanti perdite che di fatto hanno annullato i guadagni realizzati nel corso del 1998, mentre le tensioni finanziarie non hanno risparmiato il sistema monetario internazionale. Proprio sul mercato valutario, a causa della svalutazione selvaggia del rublo, gli spostamenti massicci di capitali hanno innescato una reazione a catena su tutto il sistema monetario internazionale che ha visto l’attacco contro le monete più deboli del sistema.
La borghesia internazionale, pur dimostrandosi preoccupata per le conseguenze recessive che potrebbe determinare l’attuale crisi russa, tenta di mascherare le difficoltà dell’intero sistema capitalistico commentando l’attuale crisi come una specificità russa. La classe dominante, anche per scongiurare il cosiddetto effetto domino che in questi casi può travolgere l’intero sistema finanziario, nel commentare il crollo russo minimizza l’importanza dell’economia della Russia nell’ambito di quella internazionale. Se questo è in parte vero (il prodotto interno lordo russo rappresenta circa il 2% di quello mondiale, mentre da un punto di vista finanziario l’importanza del mercato russo è ancora minore), si dimentica che la crisi russa non è un caso isolato, ma arriva dopo anni durante i quali sono crollate le economie di interi continenti. Dopo le crisi finanziarie del Messico e degli altri paesi latinoamericani, che agli inizi del 95 hanno tenuto con il fiato sospeso le borse di tutto il mondo, e il tracollo economico-finanziario delle tigri asiatiche della scorsa estate, le cui conseguenze sull’intero sistema economico internazionale non si sono del tutto manifestate, quella russa è solo l’ultima manifestazione di una crisi strutturale che investe l’intero sistema capitalistico mondiale.
Sembrano passati anni luce dalle promesse di ricchezza e libertà fatte dalla cricca uscita vincitrice dallo scontro politico agli inizi degli anni novanta in Russia, cricca costituita dagli stessi burocrati di partito che da perfetti stalinisti si sono repentinamente trasformati in convinti assertori del libero mercato. La borghesia russa pur di ottenere i capitali necessari a rilanciare le decrepite strutture produttive, ha seguito pedissequamente le indicazioni provenienti dal fondo monetario internazionale e dagli altri istituti internazionali; più democrazia e mercato come panacea per risolvere i mali causati da decenni di economia pianificata. Agli esordi del decennio in corso diventano operative le scelte strategiche della borghesia russa; in pochissimi anni si assiste ad un gigantesco processo di privatizzazione dell’economia russa le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. In questi anni a fronte di una perfetta integrazione della Russia nei circuiti finanziari intenzionali, con la creazione di una borsa valori, di numerose banche private, fondi di investimento e commissioni di controllo, si è verificato un vero e proprio crollo dell’economia reale. Il reddito nazionale della repubblica russa e la produzione industriale sono diminuiti rispettivamente del 57,5% e del 48,5% rispetto ai livelli raggiunti nel 1990; la spesa per investimenti in conto capitale nei diversi settori dell’economia russa nel 1997 è stata pari al 17% della spesa per investimenti fatta registrare nel 1990, mentre nello stesso periodo nell’importante settore manifatturiero della lavorazione dei prodotti metallurgici e meccanici la spesa per investimenti è stata solo il 5% rispetto a quello del 1990. Bastano questi semplici dati per evidenziare un processo di deindustrializzazione che non ha precedenti nella secolare storia del capitalismo. La crisi del capitalismo in pochissimi anni ha trasformato la Russia da seconda potenza economica del pianeta in un paese che è costretto ad importare ben il 90% dei beni consumati sul proprio territorio.
Le scelte operate in questi ultimi anni dalla borghesia russa hanno portato il paese alla completa paralisi produttiva e all’affamamento di milioni di proletari. Inserita nei circuiti della globalizzazione, in Russia si è realizzato in questi anni il solito meccanismo attraverso il quale il capitale finanziario affama interi continenti. Grazie ai processi di privatizzazione e alla liberalizzazione dell’economia, la Russia è riuscita ad ottenere dall’estero una massa consistente di capitali, soprattutto d’origine tedesca, che anziché essere investita nella produzione è servita a soddisfare la voracità di profitti delle varie cricche al potere. Dopo gli anni dell’iperinflazione, causata dalla liberalizzazione dei prezzi, durante i quali il rublo si era enormemente svalutato, gli investitori internazionali per far affluire nelle casse russe i propri capitali hanno imposto al governo di Mosca di stabilizzare la propria moneta attraverso una compressione dei consumi interni e una riduzione della massa monetaria circolante. I risultati di tale politica sono a dir poco sconcertanti. La compressione della massa monetaria ha determinato che il rublo sia utilizzato soltanto nel 4% delle transazioni commerciali; leggermente più utilizzato è il dollaro, mentre ben il 70% degli scambi viene realizzato attraverso il baratto. Sembra paradossale ma nell’era del dominio dell’economia di carta il capitalismo impone al proletariato il ritorno alle forme più primitive di scambio, manifestando in pieno la sua funzione antistorica.
Negli ultimi anni, proprio a causa del declino industriale, l’unica fonte utilizzata dalla Russia per pagare gli enormi debiti accumulati con l’estero sono state le entrate provenienti dalla vendita di materie prime, in particolare del petrolio (ricordiamo che la Russia è il secondo produttore di greggio al mondo). Sul mercato petrolifero grazie ad un’offerta eccessiva, causata anche dalla fine dell’embargo nei confronti della Libia, il prezzo del greggio ha subito una caduta verticale, producendo conseguenze nefaste sulla solvibilità del governo russo. Infatti, è stata sufficiente una caduta del prezzo del petrolio per far precipitare le proprie entrate e quindi far dichiarare alla Russia l’impossibilità di onorare i debiti contratti con l’estero. I grandi capitali internazionali, non avendo più la garanzia della solvibilità dei propri crediti, sono fuggiti in massa dal mercato russo causando la caduta verticale della borsa di Mosca e la disintegrazione del rublo, svalutatosi di oltre il 90% rispetto al dollaro.
Le conseguenze sociali della crisi economica sono drammatiche per il proletariato russo. Nel 1997 quasi 40 milioni di russi vivevano sotto la soglia della povertà, mentre il nello stesso anno il numero dei disoccupati ufficiali sfiorava i 38 milioni. Il fallimento economico russo è così ampio che lo stato non riesce a pagare regolarmente gli stipendi a quasi 20 milioni di impiegati pubblici. Nonostante il proletariato russo sia stato ridotto letteralmente alla fame, il fondo monetario internazionale non chieda altro che misure draconiane con le quali tagliare ulteriormente salari e stipendi e bloccare quindi la svalutazione del rublo.
Gli ultimi tentativi di dar vita ad un nuovo governo si stanno scontrando con l’incapacità della classe dirigente russa di elaborare un qualsiasi progetto politico in grado di far ripartire le fabbriche ormai arrugginite da anni di inattività. Dopo il fallimento dell’esperienza del capitalismo di stato, presentato per decenni dalle canaglie staliniste come la perfetta realizzazione del comunismo, la Russia è ancora una volta teatro di una profondissima crisi del sistema capitalistico nella sua veste classica liberista. Tutto ciò era inevitabile che si verificasse visto che le contraddizioni del capitalismo operano incessantemente nel sottosuolo della struttura economica e non possono minimamente essere risolte modificando o semplicemente aggiustando il mondo della sovrastruttura politica.
plBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #7
Luglio-settembre 1998
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