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Home ›L'intero Lazio e l'Abruzzo sotto una colata di cemento
Il territorio agricolo sta diminuendo, e sta diminuendo con una velocità preoccupante. Negli ultimi quindici anni in Italia è andata persa, in gran parte trasformata in lingue d’asfalto e mostri di cemento, una superficie agricola pari a quella delle intere regioni di Lazio e Abruzzo!
A denunciare quel che è assieme uno scempio ai danni dell’ambiente ed un crimine contro la comunità umana che vi vive, sono state sviluppate almeno un paio di inchieste interessanti (anche se prevedibilmente prive di ogni riferimento classista): in particolare “Una cascata di cemento”, pubblicata sull’Espresso a fine luglio, e “Il bene comune”, una puntata di Report andata in onda a fine maggio. (1) (2)
La situazione che ne emerge è critica, ma ancora più allarmante è ciò che ci viene prospettato per il prossimo futuro. Il “piano casa” approntato dal governo è un provvedimento peggiore di ogni condono, perché non riguarda (formalmente) il passato, ma lascia via libera alle speculazioni future. Permessi e controlli diventano inutili; basta la parola del progettista. A questo si aggiunge lo sviluppo delle cosiddette grandi opere, con l’annesso tentativo di abolizione di tutti i vincoli ambientali e paesaggistici. Infatti è proprio attorno alle nuove infrastrutture (svincoli, tangenziali, superstrade) che si sviluppa l'urbanizzazione più caotica.
Senz’altro con Berlusconi al governo, c’era da aspettarsi un’accelerazione della cementificazione; dopo tutto stiamo parlando di uno che ha cominciato ad arricchirsi con l’attività di palazzinaro. Ma la politica del centro-sinistra non è di segno diverso. Difficile enumerare i disastri in Campania. A Roma poi, dove decenni di sviluppo incontrollato hanno reso la città quasi invivibile, si continua a costruire in maniera dissennata. Il piano regolatore fortemente voluto da Veltroni prevede che vengano realizzati 70 milioni di metri cubi di cemento, ai quali bisognerà sommare tutti i vari accordi di programma, attraverso cui passano la maggior parte delle decisioni.
Le amministrazioni locali, con i budget in rosso per contenere il deficit pubblico e aggravati dalla crisi globale, approvano tutto anche solo per riuscire a pagare gli stipendi degli impiegati. Nella gran maggioranza dei casi, non c’è neanche un registro del consumo di suolo. Di fronte al cambio di destinazione di un terreno, la prospettiva che si apre al comune è di realizzare dell’edilizia residenziale (di cui una minima parte a volte viene destinata anche all’edilizia residenziale sociale, come specchietto per le allodole). Il costruttore si offre poi “generosamente” di realizzare un sistema di infrastrutture e cedere delle aree pubbliche. E l’amministrazione locale non dice mai di no, con la scusa di far lavorare operai e far realizzare nuove case (preda della speculazione), ma con lo sguardo ben fisso su brame politiche e interessi personali. Il grosso del bottino comunque va al costruttore. Le stime fornite da Report sono che le imposte e gli altri impegni negoziali col comune corrispondano al 10% circa del ricavato e le spese di costruzione al 35% circa. Il resto, più o meno la metà (2), va in tasca allo sciacallo-imprenditore, che fa cassa distruggendo ricchezze che dovrebbero appartenere alle generazioni future - un terreno fertile devastato dal cemento impiega centinaia di anni per ritornare alle condizioni d’origine.
Il risultato immediato? Una dispersione di attività economiche di vario tipo e abitazioni, in gran numero vuote, su tutto il territorio. (1) E questa dispersione corrisponde ad una ulteriore frammentazione della classe operaia, una individualizzazione completa delle nostre esistenze. “In un insediamento di questo tipo, dove sta lo spazio pubblico? Da nessuna parte, non esiste il marciapiede perché non serve. C’è un passaggio diretto tra l’ambiente privato dell’abitacolo dell’auto e l’ambiente privato dell’ingresso della casa.” (2) Inoltre, abitazioni più disperse comportano anche maggiore produzione di CO2 per gli spostamenti, il riscaldamento ecc.
Ma, anche se l’Italia rappresenta uno dei casi più gravi di distruzione del territorio, è falsa la rappresentazione secondo cui negli altri paesi le cose vadano molto meglio. Secondo i dati riportati dall’USGS, a partire dall'inizio del XX secolo in tutto il mondo sono state utilizzate qualcosa come 55 miliardi di tonnellate di cemento. L’andamento della produzione annua di cemento sulla superficie del pianeta è esponenziale. Dopo essere raddoppiata nel 1990 rispetto a vent’anni prima, ha subito una ulteriore crescita di oltre due volte e mezzo. Il cemento è cresciuto anche più in fretta della popolazione, passando da 50 kg prodotti a testa nel 1950 a quasi 400 nel 2007. (3)
Insomma, se da un lato la crisi economica apertasi negli anni Settanta ha fatto esplodere il debito pubblico, spingendo infine le amministrazioni locali a svendere terreni buoni per mettere qualche spicciolo in cassa (e far arricchire qualche amico), dall’altro l’impossibilità di realizzare adeguati profitti industriali ha spinto i capitali sempre più verso la speculazione, anche immobiliare, quando non verso la pura e semplice predazione. La continua produzione di immobili e l’aumento della quota di case vuote fanno il paio con il gran numero di famiglie in difficoltà ad arrivare a fine mese, incapaci di sostenere affitti o mutui che incidono anche per più del 50% sulle entrate. Quella dell’edilizia senza controllo è una delle tante contraddizioni del capitalismo. Si tratta dell’ennesima bolla che, in quanto tale, è destinata prima o poi ad esplodere. Ma lo farà lasciando sul terreno ruderi e macerie di cui faremo fatica a liberarci. Allora, anziché lasciare che il capitalismo si trascini ancora a lungo in questo suo stato di agonia e continui a devastare l’unico pianeta che abbiamo a disposizione, non è meglio staccargli la spina? Siamo noi proletari che lo teniamo in vita, e siamo noi che possiamo seppellirlo.
Mic(1) “Una cascata di cemento”, L'Espresso 2009-07-30, espresso.repubblica.it
“Dagli anni Novanta i comuni italiani stanno autorizzando nuove costruzioni a ritmi vertiginosi: oltre 261 milioni di metri cubi ogni 12 mesi. Nel giro di tre lustri, dal 1991 al 2006, ai fabbricati già esistenti si sono aggiunti altri 3 miliardi e 139 milioni di metri cubi di capannoni industriali e lottizzazioni residenziali. [...] Al Nord l'intera fascia pedemontana è diventata un'interminabile distesa di cemento e asfalto quasi senza soluzioni di continuità: città e paesi si sono fusi formando una delle più vaste conurbazioni europee. Una megalopoli di fatto, cresciuta senza regole e senza alcuna pianificazione, che dalla Lombardia e dal Veneto arriva fino alla Romagna. Al Centro stanno ormai saldandosi Roma e Napoli. E nel Mezzogiorno l'urbanizzazione sta occupando gran parte delle aree costiere.”
Le viste da satellite danno evidenza di quanto riportato, confermando le impressioni che possiamo farci osservando direttamente il repentino cambiamento dei nostri paesaggi. Anche senza strumenti accurati, basta dare una scorsa alle mappe di Google per convincersene.
(2) “Il male comune”, Report 2009-05-31, report.rai.it
Secondo quanto mostrato da Report, inoltre, in Italia sono dichiarate in catasto circa 28 milioni di abitazioni, 8 milioni delle quali sono vuote. Senza conteggiare le costruzioni abusive e tutto quello che non è a catasto, le cifre corrispondono a circa 32 milioni di vani inutilizzati. Ma nonostante questo, ogni anno in Italia spariscono centomila ettari di terreno agricolo, come una mezza provincia. Nel periodo che va dal 1990 al 2005, l’ultimo censimento, sono spariti tre milioni di ettari di superficie agricola. Un territorio più grande delle regioni Lazio e Abruzzo assieme. Appunto. (2)
(3) “L'età del cemento”, Marco Pagani, ecoalfabeta.blogosfere.it
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Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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