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Gli intellettuali borghesi in cerca di “equilibri aristotelici”
Dalla crisi economica che travaglia il capitalismo alla crisi concettuale in cui versano i suoi ideologi, il passo è breve. Sono entrambe angosciose sia per i conservatori che per i riformisti del sistema; per quanti, mentre il proletariato riceve bastonate da destra e da sinistra, si interrogano sul futuro di un capitalismo arrancante fra i rottami dei suoi modelli di gestione economico-finanziaria e di pace sociale.
Intanto la globalizzazione - perpetuando la divisione dell’umanità in ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati - ha peggiorato le condizioni dei secondi. I primi, poche migliaia di famiglie, godono di una ricchezza superiore alle entrate annuali del 50% dell’intera popolazione terrestre; un pugno di monopoli internazionali concentra un tale potere economico, rastrellando plusvalore in ogni angolo del mondo, da condannare alla morte per fame milioni di esseri umani ogni anno. Preso atto che il 20% dell’umanità consuma l’80% delle risorse del pianeta (depredate in maggior parte dai paesi più poveri), il “villaggio globale” si presenta scisso in due: lo sviluppo economico, convogliando la ricchezza nei palazzi dei super miliardari, costringe alla miseria e alla emarginazione metà umanità, inquinando terra, acqua e aria e mettendo in pericolo la stessa biosfera e quindi la vita sul pianeta. Il biossido di carbonio rischia di soffocare tutte le specie viventi e minaccia catastrofi ambientali da “fine della storia”.
Il famoso J. Rifkin (Reinventiamo il capitalismo, tempo fa su L’Espresso) affidava la sua speranza alla capacità umana di creare un “equilibrio aristotelico”, controbilanciando la sete di profitto dei consigli amministrativi delle multinazionali e gli interessi degli azionisti con la semplice rivendicazione di una quota di profitto a favore dei lavoratori.... Una variante del “giusto profitto per un giusto salario”. Con una raccomandazione: sia sempre “incoraggiato e stimolato lo spirito imprenditoriale del mercato, regolandone la propensione a correre senza freni”. Come? Ecco la ricetta:
“un forte movimento sindacalista e una società civile multiforme e sana, partiti politici impegnati e vigili, capaci di tenere a freno gli abusi potenziali e lo sfruttamento di pratiche capitaliste, garantendo un’equa redistribuzione dei benefici di mercato con adeguati programmi sociali e una rete assistenziale [... Sempre senza] soffocare gli incentivi di mercato...”
Un dubbio: Rifkin ci fa o ci sta?
Conosciamo, dai tempi di Marx, quel
“socialismo conservatore e borghese che intende come cambiamento delle condizioni materiali dell’esistenza non l’abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo per via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma che, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale.” (Manifesto del partito comunista, 1848)
Ma per Rifkin basterebbe
“considerare capitalismo e socialismo come ‘mani visibili’ complementari, che costantemente bilanciano l’interesse personale dell’individuo nel mercato con un senso collettivo di responsabilità nei confronti del benessere di ciascuno nella medesima società.”
Insomma, una invocazione dello... Spirito Santo che dovrebbe illuminare l’interesse personale del singolo ed evitare un “regime di terrore paternalistico ad opera di uno stato onnipotente”. Ci sarebbe anche la coda di... Belzebù, ovvero di quel comunismo che assoggetterebbe tutti “alle imposizioni di un apparato burocratico impersonale gestito dallo stato”. Qui Rifkin fa suo il gioco delle tre tavolette tragicamente messo in scena dallo stalinismo, spacciando il capitalismo di stato per il comunismo reale e confondendo la dittatura borghese con quella del proletariato. Eccoci quindi al capolinea frequentato da quanti, oggi, si sono liberati di quella “identità didascalicamente comunista” magari fino a ieri ostentata, per indossare quella di una “sinistra larga, unitaria e plurale”. Inseguendo il fantasma della “costruzione di un nuovo ciclo riformatore” capace di coniugare le tante contraddizioni che costituiscono l’inganno della politica sul quale si regge il dominio del capitale. In questo caso, l’inganno è sottile e coltiva le illusioni della “radicalità e gradualità, processualità e trasformazione, democrazia e cambiamento”...
Ricordiamo un Bertinotti che nei salotti borghesi raccontava che il passo storico - qualora si trovasse una gamba in grado di compierlo - non poteva comunque essere diverso, in lunghezza, “di quello che fece cadere il feudalesimo”: solo passaggi graduali, quindi, da stemperare nel bagno di coltura della democrazia parlamentare, guardando ad una convivenza tra “il mondo del lavoro e il capitale, per il bene comune”. Una gestione in alternanza fra destra e sinistra, fra neoconservatori e riformisti, convincendo la pubblica opinione che lo stesso proletariato sia scomparso come classe sociale. Ma anche se le grandi concentrazioni industriali si sono ridotte, al pari delle loro maestranze, e se le masse operaie appaiono oggi più frammentate e isolate, rimane pur viva in noi la certezza che il capitale unifica contro di sé il lavoro. È compito dei comunisti far sì che il tutto non conviva, e che la eliminazione del capitale e della proprietà privata non diventi una filastrocca mediatica come ormai tutta la cosiddetta sinistra borghese l’ha definita e liquidata.
DCBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #9
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