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Home ›Il G2 di Washington
Vecchie e nuove tensioni imperialistiche, dietro sorrisi e strette di mano
Sembra destino che i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina debbano passare per uno scambio di palle; così almeno racconta la retorica massmediatica, che di “palle” se ne intende. Come nel 1972 l'apertura statunitense alla Cina di Mao (e viceversa) si servì delle rispettive “nazionali” di ping pong, oggi Obama cita un campione cinese di basket che gioca negli States. L'occasione è stata la riunione del cosiddetto G2, cioè l'incontro tra il premier americano e Hu Jintao tenutosi a Washington negli ultimi giorni di luglio (27-28). Sul tappeto, il rapporto tra le due potenze e i problemi che attanagliano il pianeta, sull'origine dei quali sia Washington che Pechino hanno parecchio da dire: in breve, la crisi economico-finanziaria e il riscaldamento globale della Terra.
Di solito, però, da questi summit esce più fumo che arrosto: tra sorrisi e buoni propositi che si sprecano ad uso del pubblico, lo scontro imperialistico, al di là di piccole concessioni, resta più aspro e problematico che mai.
È noto come le sorti economiche di USA e Cina siano intimamente legate, ma, allo stesso tempo, fortemente antagonistiche. Gli USA hanno potuto campare al di sopra dei propri mezzi, accumulando un deficit pubblico di tutto rispetto (si prevedono quasi 1600 miliardi di dollari entro il 2009), grazie al massiccio afflusso di capitali esteri, e in particolare cinesi, che, negli ultimi anni, hanno incrementato l'acquisto di titoli del debito pubblico americano, tanto che oggi la Cina è il principale creditore straniero con 800 miliardi di dollari investiti nei bond del Tesoro (ma sommando anche gli asset detenuti dai fondi sovrani e da varie banche, si arriverebbe a circa 2000 miliardi). Questa montagna di soldi finanzia le guerre dello Zio Sam, ha permesso il rigonfiamento pazzesco della bolla dei subprime: in generale, ha fatto sì che i consumi degli americani non si fermassero o addirittura crescessero, nonostante che la gran massa dei consumatori, vale a dire il proletariato, debba fare i conti da anni con salari in ribasso o, ben che vada, stagnati, con una disoccupazione (quella vera) consistente, cioè con un progressivo peggioramento delle condizioni di esistenza. Peggioramento - e anche questo è noto - dovuto in gran parte allo smantellamento di intere regioni industriali, dove il salario era più alto, e al successivo trasferimento di tante lavorazioni in America Latina o, appunto, in Cina. A loro volta, i bassissimi salari cinesi fanno sì che molte merci prodotte nel “Celeste Impero” (non da ultimo, con capitali a stelle e strisce) ed esportate sul mercato statunitense - merci di largo consumo, quelle che entrano nel paniere salario - contribuiscano a tenere bassi gli stipendi dei lavoratori americani, sempre più occupati nei cosiddetti “bad jobs” (soprattutto nel terziario, ma non solo), la cui traduzione nel linguaggio corrente ci costringerebbe a usare un termine volgare, benché di immediata comprensione: lavori di... Insomma, merci a basso prezzo per una classe operaia (in senso lato) sempre più povera e precaria.
La massa del plusvalore estorto al proletariato cinese e realizzato in parte non piccola negli USA, finisce per alimentare la strategia imperialistica della borghesia di Pechino, che, come si è visto, compra i titoli americani e, contemporaneamente, si lancia in un'aggressiva politica diplomatica a tutto campo (America Latina, Africa, Estremo Oriente) in cui acquisizioni di giacimenti minerari e di piantagioni, investimenti in infrastrutture ecc., sono il grimaldello (o il piede di porco) per aprire i paesi interessati all'imperialismo “giallo”. Ovviamente, però, questo iper-attivismo dà molto fastidio al boss dei boss, cioè a Washington, che vede minacciati i propri interessi, in primo luogo quelli riguardanti il controllo delle vie energetiche. Non solo, ma ogni tanto Pechino butta lì la proposta di istituire una moneta che sostituisca il dollaro come valuta di riserva delle banche centrali e come mezzo di pagamento per gli scambi internazionali, a cominciare dal petrolio. È ovvio che se mai questa proposta si dovesse concretizzare, il signoraggio del dollaro, già oggi incrinato, subirebbe un colpo durissimo, che metterebbe una seria ipoteca sulla strategia economico-finanziaria degli Stati Uniti e, perciò, sulla loro supremazia imperialista. Può essere che tutto questo sia un semplice avvertimento agli USA perché evitino tentazioni protezionistiche nei confronti delle merci cinesi, perché tengano sotto controllo l'inflazione e, non da ultimo!, perché si astengano da una svalutazione del dollaro al fine di ridurre il debito nei confronti dei creditori esteri, come fecero nell'agosto del 1971, quando ruppero gli accordi di Bretton Woods. Di certo, all'amministrazione americana non fa piacere sentirsi il fiato sul collo, e , anzi, rilancia nei confronti di Pechino con la richiesta di rivalutare lo yuan, la cui sottovalutazione rispetto al dollaro agevola le merci cinesi. D'altra parte, un apprezzamento dello yuan avrebbe tra gli effetti quelli di abbassare il valore del dollaro e quindi dei titoli americani in mani cinesi e le riserve valutarie (oltre 2000 miliardi di dollari). Insomma, il solito ginepraio borghese, in cui i due contendenti si tengono per il collo, ma nessuno può mollare l'altro, col rischio di soccombere insieme; la classica situazione gravida di lampi di guerra, per quanto non immediata.
Non è finita: sul tappeto ci sono le mire strategiche della Cina in Asia centrale, dove gli USA stanno attraversando crescenti difficoltà, a causa del lavorio di Pechino e di Mosca, temporaneamente alleate proprio in funzione antiamericana. Non per niente, uno degli obiettivi de cosiddetto G2, secondo le intenzioni statunitensi, è proprio quello di interrompere l'avvicinamento russo-cinese. Ci sono poi le questioni Iran e Corea del Nord, “paesi canaglia” per eccellenza, ma protetti da Pechino. C'è il problema climatico: Cina e USA emettono da soli il 40% di tutta l'anidride carbonica immessa nell'atmosfera. Se Obama sull'ambiente ha annunciato una svolta radicale rispetto alle precedenti amministrazioni, la Cina, per impegnarsi su quel terreno, chiede agli USA tecnologie d'avanguardia ancora sotto embargo, con la ridicola scusa della violazione dei diritti umani da parte di Pechino, mentre, in realtà, i monaci tibetani c'entrano poco: quelle tecnologie possono essere utilizzate anche nel settore degli armamenti...
Insomma, l'incontro di Washington pare proprio essersi concluso con tante belle promesse, ma, che cambiano ben poco nelle relazioni tra i due stati. Intanto, Hillary Clinton ha fatto la valigia per un altro tour in Africa (subito dopo quello di Obama) dato che il continente è concupito da Pechino, e la Colombia dà la propria disponibilità ad ospitare sette nuove basi statunitensi, più necessarie che mai, dato che il l'America Latina, tra presidenti “di sinistra” e miliardarie avances cinesi rischia seriamente di sfuggire dalle mani,pardon, dagli artigli dello Zio Sam.
CBBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #9
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