La faccia “buona” dell'imperialismo USA

Ma chi paga sono sempre gli stessi

Allo scadere dei primi cento giorni della presidenza Obama, i mass media hanno dedicato grande spazio ai vagiti della nuova era che il capo della più grande potenza imperialistica mondiale avrebbe aperto.

Com'è ovvio che sia, tifosi e detrattori del presidente hanno dato fiato alle trombe (e alle trombonate) per intonare inni di giubilo alla radiosa alba americana o marce funebri a un'America preda di un “abbronzato” para-socialista. Favorevoli o contrari, i commentatori borghesi si sono però trovati d'accordo su di un punto: la politica estera della repubblica stellata non sarà più quella di prima. Sarà vero?

Come tutte le leggende, un fondo di verità c'è, e magari anche più di un fondo, ma, al fine di non farsi abbagliare dai sorrisi accattivanti di Obama, è bene tener presente che si tratterebbe, nel caso, di una tattica diversa per perseguire gli stessi obiettivi strategici di sempre: la supremazia sul pianeta.

L'eredità dell'era Bush è, per certi versi, pesantissima, l'esercito americano - e relativi alleati - si trova impantanato in Iraq e in Afghanistan senza che, allo stato attuale delle cose, si intraveda una via d'uscita militare. Anzi, in Afghanistan i talebani, come tutti sanno, hanno ripreso il controllo di vasti territori e sconfinano ampiamente nelle zone cosiddette tribali del Pakistan occidentale, rendendo ancora più bollente la patata pachistana.

Se quell'area geografica procura dunque seri grattacapi all'amministrazione USA, non è che le faccende vadano poi così bene nel vecchio “cortile di casa”, cioè nel subcontinente latinoamericano.

Rispetto anche solo a dieci anni fa, le cose sono molto cambiate a sud del Rio Grande: mentre allora l'America Latina era tenuta saldamente in pugno da “governi amici”, anzi, non di rado, più che amici servi e complici delle multinazionali yankees, oggi, tranne che in Messico e in Colombia, si sono insediati governi variamente “di sinistra” che, pur essendo ben lontani dal mettere in discussione il capitalismo, non sono disposti a fare da scendiletto al Grande Fratello nordamericano e stanno cercando di agire autonomamente.

Ma non è finita qui. Senza tenere conto dell'imperialismo europeo, tuttora balbettante e incapace di muoversi davvero come un sol uomo, c'è l'aggressività diplomatico-economica della Cina (in particolare Africa - per es. Sudan-Darfur - e America Latina), lo spirito di rivincita dell'imperialismo russo che, benché costretto dalla crisi a rivedere gli ambiziosi piani di rilancio dell'era Putin, briga e traffica per imporre la propria egemonia sulle repubbliche dell'ex URSS, nella disgregazione della quale ebbero un ruolo rilevante i dollari dello Zio Sam.

Infine, la piaga aperta della Palestina che dà forza e prestigio all'arci-nemico Iran. Insomma, ce n'è abbastanza per provare a seguire un'altra strada rispetto a quella percorsa negli ultimi anni. La pesantissima crisi economica e i numerosi fronti che l'imperialismo USA si trova costretto ad affrontare hanno convinto il grande capitale a sostenere un personaggio come Obama che, nel gioco degli inganni imperialistici, rappresenta lo “sbirro buono”, al posto dello “sbirro cattivo”, cioè Bush e la sua ormai impresentabile banda di macellai aperti e dichiarati. Da qui, il mondo ha potuto assistere e ascoltare cose che ai più fanatici “teocons” fanno rizzare i capelli in testa: timidi accenni ad ancor più timide aperture a Cuba, al Venezuela, all'Iran del fascismo teocratico, disponibilità - almeno a parole - di ridiscutere l'installazione dello scudo antimissile in Polonia e Cekia, disponibilità a prendere in considerazione una moratoria sull'ingresso di Ucraina e Georgia nella NATO (anche se poco tempo fa, la Georgia ha partecipato a un'esercitazione dell'Alleanza Atlantica sul proprio territorio). Ciò vuol dire, allora, che la crisi, invece di inasprire i contrasti interimperialistici e accendere potenzialmente nuovi focolai di guerra, spinge a un “vogliamoci bene” generale? Mai più. I motivi di contrasto e gli obiettivi strategici sono tutti sul tavolo, come e più di prima, ma il pugno di ferro deve essere avvolto in un guanto di velluto, perché, al momento, occorrerebbe, per sferrare quel pugno contro tanti avversari, un corpo più vigoroso di quanto non disponga oggi lo Zio Sam. Dunque, la cosiddetta guerra la terrorismo dell'epoca Bush rimane un obiettivo di fondo della presidenza Obama, anzi! Dietro la facciata della lotta al terrore islamico si nascondeva e si nasconde l'intenzione di controllare le più grandi riserve di idrocarburi del mondo, dall'Iraq all'Asia Centrale, circondando l'Iran (con la prospettiva di instaurarvi un governo amico), occupando l'Afghanistan, mettendo radici negli stati ex sovietici dell'Asia per completare l'accerchiamento della Russia e soffiare sul collo alla Cina. Ma le basi americane in Asia centrale sono state invitate a chiudere i battenti, mentre la situazione in Iraq e in Afghanistan, come si diceva, è quella che è. Ecco, allora che se da una parte si annuncia platealmente la chiusura del lager di Guantanamo e il ritiro (non totale) dall'Iraq entro l'agosto 2010, dall'altra vengono stanziati 96,7 miliardi di dollari oltre il normale “budget” militare per quei due paesi (e per il Pakistan) e la casa Bianca ne ha chiesti al Congresso altri 130. La novità è che questa volta sarà l'Afghanistan la priorità, tanto che si pensa già all'allargamento della base-prigione di Bagram e l'invio, entro l'estate, di altri 21.000 militari.

Gli Stati Uniti non possono permettersi di essere sbattuti fuori da un'area di vitale importanza strategica, sulla quale convergono i famelici appetiti di vari predoni imperialisti; per questo, i sorrisi di Oabama sono, in definitiva, come la melina di un pugile in difficoltà che deve riprendere fiato e forza.

Intanto, la popolazione civile continua a morire, ma è il prezzo che deve pagare a maggior gloria della civiltà democratica o di Allah, cioè del capitale.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.