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Home ›Obamismo nuova frontiera del neo-riformismo?
Ogni volta che il modo di produzione capitalistico entra in crisi e l’esplodere delle sue contraddizioni ne mettono in luce la sua storicità e transitorietà, come un sorta di riflesso condizionato, la variegata area politica che si richiama al riformismo di sinistra, pur di non prendere atto della necessità storica del superamento rivoluzionario di questo modo di produzione, rimane affascinata da qualsiasi imbonitore che promette una qualche discontinuità con lo stato di cose precedenti.
Questa la volta ad affascinarla è stato il neo-eletto presidente degli Usa Barack Obama. Vi è riuscito ancor prima di profferire verbo, per il solo fatto di essere un uomo di colore e in quanto tale simbolo della lotta contro qualsiasi sforma di schiavitù.
Poi è bastato che Obama annunciasse di voler chiudere Guantanamo, di voler sviluppare la produzione di energia da fonti rinnovabili,_ di fare qualche accenno alla pace nel mondo e muovere qualche critica al neo- liberismo e al suo predecessore Bush perché immediatamente diventasse il paladino della via statunitense al socialismo_.
Ma più di qualsiasi altra nostra ulteriore considerazione, potrà dare meglio la misura di quanto oleografica sia questa rappresentazione del nuovo presidente degli Usa e della pochezza teorica e politica della cosiddetta sinistra radicale e riformista una sbirciatina ai primi passi compiuti da Obama.
Cominciamo dalla politica internazionale semplicemente riportando alcune delle dichiarazione fatte dal suo vice Biden alla recente conferenza sulla sicurezza globale di Monaco. Per prima cosa, perché fosse chiaro che se cambiano i toni della politica estera statunitense non cambia la sua sostanza, egli ha tenuto a precisare che: “L’America vuole ascoltare” ma anche che gli Usa “continueranno a sviluppare le loro difese missilistiche. Ovviamente solo “per contrastare la crescente potenza dell’Iran”. E alla Russia, che solo qualche giorno prima aveva annunciato la sospensione dell’istallazione di nuovi missili a Kaliningrad ha risposto che gli Usa “non riconosceranno l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del sud né il diritto di Mosca ad avere una sua sfera di influenza”.
Mentre ha rivendicato per gli Usa “l’ambizione di promuovere la democrazia senza imporla con la forza” salvo che “quando tutto il resto fallisce”. Insomma: tutto come prima.
Se dalla politica estera passiamo a quella economica, cioè al famoso piano di rilancio dell’economia (recovery plan), l’incantesimo svanisce come una fata morgana alle prime luci del giorno.
Durante la campagna elettorale Obama aveva sostenuto che intendeva invertire radicalmente rotta e spostare tutte le risorse disponibili a sostegno del rilancio della domanda interna e dell’occupazione mediante il sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili e alla riqualificazione e ristrutturazione delle Opere Pubbliche in completo stato di abbandono da oltre venti anni.
Per quel che riguarda il sostegno alla domanda invece aveva annunciato una riforma dell’assistenza sanitaria e una riqualificazione della scuola pubblica per facilitarne l’accesso anche alle fasce sociali più deboli. Il tutto per un impegno di spesa complessivo di circa un miliardo di dollari.
Nell’iter per l’approvazione del piano, oltre alla contraddittoria clausola Buy America (compra America) a cui erano vincolate le imprese assegnatarie degli appalti per le opere pubbliche caduta perché rischiava di innescare una reazione protezionistica a catena, si sono persi per strada, a causa dell’opposizione repubblicana, anche i fondi destinati alla riforma sanitaria e alla pubblica istruzione. Ma la cosa più eclatante è che il piano destina il 40 per cento di tutte le risorse alla riduzione delle imposte sul reddito.
Il che, nei fatti, vuol dire il proseguimento della politica ispirata alla cosiddetta trickledown ovvero la teoria, propria della scuola neoliberista secondo cui l’aumento della ricchezza nella parte più ricca della società, sgocciolando verso quella più povera, arreca benefici anche a quest’ultima. Infatti, la riduzione delle imposte sul reddito va a vantaggio di coloro che hanno un lavoro e un reddito stabile non di coloro che avendo perduto il lavoro o che lo perderanno nei prossimi mesi, non hanno più alcuna fonte di reddito.
Se poi si tiene conto che è venuto alla luce che, per evitare la bancarotta dell’intero sistema del credito, il governo statunitense deve sborsare qualcosa come 9.700 miliardi di dollari, appare evidente che anche il quasi compagno Obama non potrà fare altro che tagliare quanto più è possibile la spesa sociale.
Il fatto è che il riformismo radicale di sinistra, continua a non comprendere che non è stato il successo del neoliberismo a determinare l’erompere di questa crisi ma piuttosto che è stato il suo erompere nei primi anni ’70 a determinarlo. Non lo comprende perché essendo esso stesso una costola del modo di produzione capitalistico non riesce più neppure ad auspicare e forse anche solo a immaginare un mondo non più basato sulla logica del profitto e lo sfruttamento del lavoro.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio-marzo 2009
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