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Cause economiche e conseguenze sociali della precarizzazione
La definizione borghese di precarietà è di una semplicità disarmante. In sostanza si dice che, in una società post moderna, post industriale, post non si sa bene cosa, il lavoro non può più essere considerato, come nella fase storica precedente, un rapporto duraturo tra la forza lavoro e il capitale, ma come un rapporto che varia nel tempo, più flessibile, più vicino alla dinamica della società capitalistica. Non verrebbe meno il lavoro ma soltanto la sua continuità d’impiego nella medesima situazione occupazionale. In altri termini, per buona parte dei lavoratori, sia nel settore pubblico che in quello privato, non è più possibile entrare in un’azienda e rimanerci per il resto della vita lavorativa, ma si può cambiare lavoro e ambiti lavorativi, senza che questo comporti disoccupazione o gravi disagi sociali se non quelli relativi alla ricerca e all’adattamento di nuovi impieghi Ognuno diventerebbe imprenditore di se stesso, sarebbe messo nelle condizioni di migliorare il suo futuro, solo che lo voglia e abbia le competenze necessarie.
Nulla di più falso. La precarietà nasce come l’irrinunciabile obiettivo del capitale di rendere il suo rapporto di sfruttamento con la forza lavoro più intenso e più adeguato alle sue necessità di valorizzazione. In una fase storica caratterizzata dalla realizzazione di profitti sempre più scarsi, da una conseguente concorrenza sempre più esasperata, ai vari capitali non resta altro che contrarre al massimo i costi del lavoro. Il primo passo è stato quello di fare in modo che il rapporto con la forza lavoro non fosse più, come prima, caratterizzato da contratti a tempo indeterminato che sarebbero gravati sull’economia dell’impresa come insopportabili macigni, ma atipici, cioè a tempo determinato, a seconda delle tipologie contrattuali. Il concetto di fondo era quello di organizzare il mondo del lavoro in modo tale da avere a disposizione i dipendenti solo quando l’impresa ne avesse bisogno, perché in grado di sfruttarli al meglio, e di lasciarli a casa nel momento in cui, per cause di mercato o di minore competitività, la loro permanenza all’interno dell’ambito produttivo si fosse risolta in una erogazione improduttiva di salari, ovvero in una perdita secca di profitti.
La precarietà, dunque, sta alle condizioni lavorative del proletariato come il moderno capitalismo sta al progressivo maturare delle sue contraddizioni. Più il capitalismo è in crisi di profitti e più l’attacco alle condizioni di lavoro del proletariato aumenta. Altre vie il capitalismo non è in grado di percorrere.
I contratti atipici
I passi, pesanti e veloci, con i quali il capitale ha portato il suo attacco alla forza lavoro hanno disegnato una devastante traiettoria. In primo luogo si è dato inizio ad un processo normativo che in pochi anni ha prodotto ben 46 contratti atipici. Dal lavoro interinale al lavoro a progetto si è costruita, con l’avallo dei sindacati, una complessa e precisa piramide contrattuale la cui base è costituita da un unico, fondamentale principio: la precarietà del posto di lavoro. Per legge, qualsiasi contratto, da quello di due giorni a quello di sei mesi, scade senza che la controparte lavorativa possa in qualche modo opporsi all’esclusione dai rapporti di produzione. D’altra parte, proprio questo interessa al capitale: avere a disposizione la forza lavoro nel momento in cui gli serve, quando i meccanismi di sfruttamento girano al massimo, e disfarsene liberamente, senza contenziosi sindacali di sorta, nel momento in cui, non solo non serve alla sua valorizzazione, ma ne diventa un onere insopportabile. La piramide contrattuale dei lavori precari, dalla base al vertice, non poteva che essere costruita, pietra su pietra, in funzione delle sempre più deboli capacità del capitale di estrarre remunerativi profitti nell’ambito della produzione reale. Questo, e solo questo, è alla base della precarietà del lavoro. Ogni altra definizione ricade nelle profonde pieghe del trasformismo ideologico borghese che tutto deve confondere e negare per continuare al meglio il processo di sfruttamento della forza lavoro.
La diminuzione del salario diretto
La precarietà non è soltanto la nuova norma che regola i rapporti tra capitale e forza lavoro, è anche il mezzo per contenere il costo della forza lavoro. Tutti i contratti atipici che vanno a sostituire i vecchi contratti, in qualsiasi ambito lavorativo s’inseriscano, prevedono una diminuzione del salario di almeno il 30/40%. In alcuni settori (call center che impiegano 250 mila dipendenti) si parte da uno stipendio minimo di 250 euro mensili per arrivare ai 600 come massimo. Ben quattro milioni di lavoratori sottoposti a questo regime normativo non superano un salario di 700 euro mensili. I contratti atipici, inoltre, non prevedono il pagamento delle ferie, l’indennità di maternità, la cassa malattia. Il lavoratore è totalmente alla mercé del capitale, senza tutele, a salari bassi se non bassissimi, l’unica certezza è fornita dalla cessazione del rapporto di lavoro.
La diminuzione del salario indiretto
Anche sul versante di quella quota di salario che non va direttamente in busta paga, ma che viene accantonata per la previdenza e l’assistenza, la precarietà preme verso il basso. Non solo i contratti atipici non prevedono la maternità e la cassa malattia, ma viene meno anche la possibilità, per il lavoratore, di costruirsi un percorso pensionistico. Lavorare sei mesi e stare a casa per tre, lavorare tre mesi per essere disoccupato per quattro non consente al lavoratore precario di accumulare i contributi sufficienti alla pensione che, oltretutto, si allontana sempre più con l’innalzamento dell’età pensionabile. In queste condizioni ci vorrebbero due vite di lavoro per raggiungere il minimo d’anzianità. Al massimo, dopo quarant’anni di lavoro, potrà godere della pensione minima, sempre che nel futuro non si faccia piazza pulita anche di questa. La scienza sociale borghese ci afferma che il lavoratore può, se lo vuole, costruirsi una pensione integrativa. Ma con quali soldi se lavora sei mesi sì e sei mesi no, a salari di fame che lo collocano al di sotto della soglia di povertà.
L’aumento della ricattabilità del lavoratore
Un’altra conseguenza della precarietà consiste nel mettere il lavoratore nelle condizioni di assoluta sudditanza nei confronti del capitale che lo può ricattare con più facilità. I contratti atipici prevedono la rinnovabilità del rapporto di lavoro, poi di norma, o scatta l’assunzione a tempo indeterminato o si passa al licenziamento definitivo. Il meccanismo è tale per cui, ai lavoratori che politicamente si danno da fare sul posto di lavoro, il rinnovo del contratto a termine diventa una chimera, e il passaggio all’assunzione a tempo indeterminato un evento impossibile. Lo stesso discorso vale per il rifiuto di fare gli straordinari e i fine settimana lavorativi, quando l’economia dell’azienda lo impone. Il ricatto è talmente forte che molti lavoratori rinunciano persino a denunciare incidenti occorsi sul posto di lavoro. Rinunciano anche a brevi assenze per piccole malattie pur di non comparire sul libro nero dei non desiderati. L’arma del ricatto è quindi economica e politica, è un potente strumento nelle mani del capitale che gli consente un controllo pressoché assoluto, da esercitare in qualsiasi situazione, sulla pelle di un proletariato sempre più debole economicamente e politicamente indifeso.
Per i giovani proletari d’oggi e per la prossima generazione di lavoratori, la precarietà economica non è soltanto un lavoro insicuro, temporaneo e mal pagato, è sinonimo di precarietà sociale, di difficoltà a costruirsi una vita autonoma, di frustrazione quotidiana. I giovani rimangono in famiglia sino ai trent’anni e oltre, si sposano con sempre maggiore difficoltà, sopravvivono in questo mondo tecnologico ed avanzato solo grazie all’unico ammortizzatore sociale che ancora funziona: la famiglia di provenienza, finché sarà in grado di provvedere. Il capitalismo moderno, per sopravvivere alle sue contraddizioni, ha oggi creato le condizioni di quello che sarà il modello di vita di domani per milioni di giovani lavoratori: precarietà, insicurezza economica, maggiore sfruttamento sul posto di lavoro e insicurezza sociale.
fdBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
Ottobre 2006
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