Siria, Iran: attaccare o non attaccare, questo è il dilemma

Gli Usa meditano e il Libano esplode

Il ripetersi delle smentite da parte di responsabili Usa circa le intenzioni di attaccare a breve la Siria (o l'Iran) sono una delle dimostrazioni che l'attacco potrebbe essere imminente.

Certamente esistono problemi enormi per un simile attacco. A parte l'ovvietà che la Siria o l'Iran non sono l'Iraq, alcuni fatti inoppugnabili rendono ardua l'impresa. Innanzitutto la mancata soluzione irachena, dopo l'altrettanto mancata soluzione in Afghanistan. Se già si presenta difficile il ricambio delle truppe americane già impegnate in quei paesi, il dispiegamento di nuove forze in un altro paese del Medio Oriente più problematico dei primi due potrebbe addirittura sembrare impossibile.

C'è poi il problema dei costi delle occupazioni in corso, senza la contropartita sperata. La gestione totale e in esclusiva del petrolio iracheno è tuttora un obiettivo da perseguire, più che un risultato raggiunto. E questo pur tenendo conto del vero e proprio furto di circa tre milioni di barili al giorno da parte di compagnie americane che è stato da più parti denunciato. Restano i continui attentati agli oleodotti e l'insicurezza degli stessi pozzi estrattivi a limitare l'estrazione quotidiana in Iraq a una frazione di quella "usuale".

D'altra parte, in Afghanistan l'abbattimento del regime dei talebani ad opera dei marines Usa non ha certo riportato quel grado di sicurezza che consente la costruzione - e poi la gestione - dell'oleodotto che doveva portare il petrolio dalle regioni caucasiche all'Oceano indiano. Si tratta di un ipotetico grosso affare per il quale sono morte migliaia di persone e che avrebbe resa più stretta la presa americana sul petrolio mondiale, ma che è ancora lontanissimo dal realizzarsi. Ma gli americani non possono venirsene via, perché non possono permettersi che altri (Russia, Europa o Cina) mettano in qualche modo il naso e le mani anche su una parte dell'oro nero mediorientale.

La posta in gioco è la tenuta del dollaro quale moneta di riferimento mondiale, di quella posizione di rendita cioè che consente agli Usa di reggere di fronte ai deficit gemelli (federale e commerciale) che segnano nuovi record ogni sei mesi. E nella difesa del ruolo di comando del dollaro gioca una funzione determinante il controllo del petrolio, e - per dichiarazione americana - del petrolio mediorientale che rimane fondamentale.

La Siria, apparentemente sotto mira in questi giorni, non è particolarmente ricca di oro nero. È fra le più sfornite della regione. Ma il suo ruolo micro-imperialistico nella regione stessa - con il controllo per esempio, del Libano - ne fa un possibile obiettivo intermedio nel grande piano di... "democratizzazione" del mondo arabo-islamico.

Non è certo un caso l' "esplodere" della cosiddetta rivoluzione delle rose in Libano. In realtà si tratta di una mobilitazione della borghesia filo-occidentale (leggi filo-americana) prevalentemente cristiano maronita e sunnita, contro il precario equilibrio che si era stabilito nel 1991 alla fine di 15 anni di guerra civile e garantito dalla presenza di truppe siriane e di un forte controllo siriano sul governo libanese stesso. È facile vederci dietro le mene americane contro la Siria, da una parte e contro i palestinesi, dall'altra. Subito dopo le dimissioni del governo libanese, Bush si è affrettato a far la voce grossa con Bashar Al Assad (il presidente siriano) per ingiungergli il ritiro immediato delle truppe, chiesto anche dagli "insorgenti" borghesi libanesi. Un nuovo governo libanese, filo-americano consentirebbe poi di liberarsi più facilmente (non importa con quanta violenza) dei campi profughi dei palestinesi e del controllo delle frontiere meridionali con Israele da parte degli Hezbollah. Tre piccioni dunque con la sola fava dell'appoggio politico, finanziario e logistico alla borghesia filoccidentale libanese.

Non siamo, né potremmo essere, nella testa degli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca e non possiamo prevedere dunque dove e quando verrà sferrato il vero colpo militare: se In Siria o in Iran. Sappiamo però che un attacco militare diretto nella regione è nelle mire e negli interessi degli Usa. Prevarrà l'interesse e la spinta di quelle frazioni parassitarie della borghesia americana attualmente dominanti (petrolieri, finanzieri, produttori e trafficanti d'armi) che tendono a far coincidere i propri interessi con quelli più generalmente nazionali del capitalismo americano, o le frazioni più direttamente produttive e più attente a una gestione più oculata della strapotenza militare americana? L'alternativa immediata è questa perché se è pur vero che un attacco all'Iran o alla Siria, indipendentemente dalla sua specifica vicenda, potrebbe non incontrare decisive resistenze immediatamente militari, è pure vero che esso accelererebbe e non di poco i processi di schieramento politico, diplomatico e militare già in atto nel mondo.

La ancora malinconica considerazione di fronte a queste prospettive - tutte borghesi - è che esse si pongono nella assenza pressoché totale di iniziativa proletaria. Perchè solo alla ripresa di questa che è affidata la possibilità di metter fine all'inferno delle strategie imperialistiche.

m. jr

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.