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Home ›Articolo 18: due piccioni con una fava - Ma i licenziamenti non si fermano con il referendum
Due i fronti politici attorno al referendum sull'art.18. Del primo fanno parte tutta la maggioranza governativa, la Confindustria, le imprese di sinistra (Lega delle cooperative e la Cna - artigiani); nel secondo troviamo Rifondazione (che ha proposto il referendum) spalleggiata da "antagonisti" sindacali e politici di varia natura. Nel mezzo i lavoratori, gregge comunque condotto alla tosatura, facendogli sognare verdi prati e limpidi ruscelli.
Il fronte del No o dell'astensione contro il necessario quorum, minaccia sciagure nazionali nel caso di una vittoria dei Sì: molte imprese sotto i quindici dipendenti, ingessate e soffocate, rischierebbero la propria sopravvivenza. L'economia del paese, la sua competitività nel mercato globale, sarebbero pericolosamente danneggiate, mentre calerebbe l'occupazione per centinaia di migliaia di unità,
Ad una eventuale estensione dell'art.18 sarebbero interessate circa 450/480mila imprese manifatturiere e terziarie con più di 8/10 dipendenti. Il precariato, i lavoratori atipici (fra cui oltre un milione e mezzo di co.co.co.) restano esclusi, poiché nulla cambia per chi non dispone di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (tant'è che il Presidente del comitato promotore del referendum afferma che: "l'importanza del referendum e della vittoria del Sì sta nella sua valenza simbolica". Oltre che nelle strumentalizzazioni politiche, interne alla stessa sinistra borghese.
Oggi i licenziamenti per ragioni disciplinari sono (almeno in teoria) individuabili dal giudice; non così quelli dovuti a ragioni economiche. Già si è fatta avanti la CGIL con una proposta di legge che estende gli ammortizzatori sociali alle piccole imprese. Queste potranno, anzi saranno obbligate al ricorso preventivo alla cassa integrazione e ai contratti di solidarietà, ottenendo così la giustificazione ufficiale anche ai licenziamenti per ragioni economiche.
I licenziamenti cosiddetti illegittimi che oggi, nelle aziende con più di quindici dipendenti, arrivano a sentenza sono annualmente poche centinaia. Ma è pur vero che l'art.18 ha un valore preventivo, deterrente e antiricattatorio di un certo peso, ed è soprattutto per questo che gli imprenditori lo osteggiano e che la maggioranza dei lavoratori lo sostiene,
Veniamo al fronte del Sì, cioè ai suoi "organizzatori". Le motivazioni e gli obiettivi - nero su bianco - dalle pagine di Liberazione e del Manifesto (inserto del 1° maggio).
Si parte dal "bisogno di cambiare" affinché "il lavoro non possa essere solo una voce di mercato". Per questo si da la parola a tutti i cittadini, non solo i lavoratori ma anche e soprattutto chi li sfrutta e li opprime, materialmente e ideologicamente. Ci si appella alla Costituzione (che è saggia e sa sempre tutto!) per scoprire che, sì, forse, in fondo, i lavoratori avrebbero diritto di partecipare anche alla gestione delle aziende, la cui proprietà non sarebbe più totalitaria: infatti, "è anche un po' di qualcun altro: dello Stato che indica o fa valere gli interessi generali, e naturalmente di chi lavora". Non si parla, qui, dei capitalististi che la possiedono realmente; anzi, a dimostrazione di quanto detto, ecco che "quando una persona lascia il lavoro, di quella sua impresa gliene danno un pezzetto, la sua parte, sotto forma di Tfr". Compagni, gli stalinisti erano dei santi al confronto dei giornalisti del Manifesto!
All'articolo 18 viene assegnata addirittura una "virtù economica", anzi, più di una. Innanzitutto, a rimorchio della Associazione Artigiani e Piccole Imprese, si ricorda ai cittadini che "l'imprenditore ha necessità di investire nel lungo periodo sul dipendente per fargli apprendere il mestiere. Quindi solo garantendogli la sicurezza economica e temporale, lo riesce a fidelizzare e tenerlo con sé". L'imprenditore, buon padre di famiglia, è l'aspirazione dei referendari in questione. I quali, se si battono - si fa per dire - per il Sì, lo fanno e lo dichiarano in considerazione di un altro fatto: "la stabilità del posto di lavoro ha permesso all'economia italiana (ma perché non lo chiamano capitalismo?) una forte espansione del credito al consumo (rate, mutui, prestiti); quindi un aumento generale della domanda di merci, dall'elettronica di consumo alle case in proprietà, riempite - meraviglia! - di mobili e chincaglieria, di pacchianate e oggetti indispensabili, insomma di merci". Già, è così che gira il capitalismo, e invece - si rattrista il Manifesto - gli imprenditori sono caduti in preda ad idee false e suicide. È mai possibile che non comprendano che precarizzando il rapporto di lavoro si disincentiva il benessere, si diminuisce il consumo totale delle merci, e quindi gli ordinativi all'industria? Questo accade - sempre secondo i referendari - quando l'imprenditore si ostina a "ragionare come un singolo, non come sistema", e così facendo porta al disastro il... capitalismo!
Finita la frutta, si passa al caffè, con Bertinotti che nelle piazze e in Tv fantastica attorno a cambiamenti e miglioramenti dello "sviluppo" del capitalismo, reclamando - per legge democratica - dei vincoli e delle rigidità al potere del capitale sui lavoratori. Attenzione, e sia chiaro: vincoli e rigidità senza il rischio di strangolarli - ci mancherebbe - ma che spingano i capitalisti a risvegliare i loro migliori istinti imprenditoriali, in competizione con i grandi paesi più avanzati, potenziando investimenti, ricerche tecnologiche e specializzazioni produttive. Esattamente tutto ciò che, dominando questo modo di produzione e distribuzione, crea... disoccupazione! E per Bertinotti, se gli imprenditori non si decidono a farlo, si ricorra alle nazionalizzazioni. Tanto, privato o statale, il capitale non cambia neppure la pelle.
In conclusione, la scelta è fra l'essere trattati come l'asino di Buridano (addestrato a lavorare mangiando sempre meno biada) o come poveri fessi, convinti che sia possibile, con l'articolo 18, di far "uscire l'economia dalla stagnazione".
dcBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #5
Maggio 2003
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