Palestina, Bush volta faccia - E il massacro del proletariato continua

Nemmeno cinque mesi fa il presidente Bush aveva dichiarato la sua disponibilità a favorire la nascita dello Stato palestinese nei territori occupati. In tempi precedenti aveva criticato Sharon per eccesso di reazione agli attentati palestinesi e considerato Arafat come l'interlocutore di cui non si poteva fare a meno. A gennaio di quest'anno, improvvisamente Bush ha fatto marcia indietro, si è rimangiata la disponibilità alla creazione dello stato palestinese ed Arafat è diventato un bugiardo, il capo dei terroristi, un politico senza nessun'attendibilità. Certamente le vicende interne hanno avuto un peso. Il tentativo di Hamas di screditare Arafat e la sua linea politica continuando il cammino terroristico nonostante le ripetute richieste di cessazione degli attentati, ha buttato benzina sul fuoco. Lo strumentale atteggiamento del governo israeliano, di fronte a questi episodi, ha avuto facile gioco nel sottrarsi alle trattative e nell'imputare al capo dell'Olp la responsabilità del fallimento di un qualsiasi piano di pace. Così, infatti, ha potuto recitare Sharon, come gli Usa hanno avuto il diritto di scatenare una guerra contro il terrorismo di Osama bin Laden, così noi abbiamo tutto il diritto di fare altrettanto con il terrorismo palestinese, trascinando di nuovo dalla sua parte il governo americano. Ma se ci limitassimo a questi episodi interni perderemmo di vista le vere ragioni che hanno fatto cambiare, per ora, atteggiamento al presidente americano. Uno dei motivi che lo avevano spinto a sbilanciarsi in favore di un futuro stato palestinese era dovuto al timore che la guerra in Afganistan potesse innescare un processo di crisi all'interno dei paesi islamici dell'area asiatica e non solo, creando problemi agli Usa e ai suoi alleati. Tenuto conto del fatto che bin Laden aveva giocato proprio la carta palestinese in chiave anti americana, la contro mossa di Bush è stata immediata, quanto scontata. A guerra finita, anche se finiti non sono i problemi innescati dalla guerra stessa, il paventato pericolo di una crisi d'area è rientrato e sono prevalsi i problemi di più vasto respiro imperialistico rispetto a quelli del conflitto israelo - palestinese. Uno di questi è rappresentato dalla reiterata proposta iraniana di far passare la pipe line dal Kazakhistan all'Oceano indiano attraverso il suo territorio. Soluzione più logica, più breve e meno dispendiosa ma osteggiata dagli Usa che hanno inventato una guerra in Afganistan proprio per evitare questo percorso a favore di uno alternativo, meno logico, più lungo e dispendioso ma che prevede di eliminare la concorrenza di Russia e Iran dal controllo e dalla gestione del petrolio caspico. A questa fase del contenzioso, con puntualità cronometrica, i servizi segreti israeliani "intercettano" una nave iraniana carica di armi e di forniture militari destinate all'Anp di Arafat. Il gioco è fatto. L'Iran ritorna così ad essere proposto come il finanziatore e fornitore di armi al terrorismo internazionale e nemico numero uno degli Usa che possono isolarlo dal contesto internazionale vanificando qualsiasi sua proposta petrolifera, e Israele gioca contemporaneamente la sua carta anti palestinese con l'inevitabile assenso americano. Create le nuove condizioni di criticità nella solita area del Golfo Persico con conseguenze su quella Mediorientale, il progetto di creazione di uno stato palestinese è costretto a segnare il passo, Israele respira a pieni polmoni l'aria del dominatore e per il proletariato palestinese la tragedia infinita non si ferma.

A seguire, lo scenario si riapre sulla zona calda dell'eterna questione palestinese. Bush fa marcia indietro, consente all'esercito israeliano di reprimere con inaudita ferocia ogni atto di terrorismo palestinese, peraltro va detto, innescato dal rifiuto del governo Sharon di iniziare il processo di smobilitazione dai territori occupati, come impongono gli accordi di Oslo, e di porre termine alla costituzione di nuovi insediamenti. Impedisce all'Onu di inviare una propria rappresentanza per individuare le responsabilità dello Stato israeliano in termini di violazione dei diritti umani, accusa Arafat di non essere in grado di contenere il terrorismo dei movimenti integralisti e di esserne in alcuni casi il mandante, attrribuendogli la responsabilità del fallimento delle trattative di pace. Il passo successivo non poteva che essere quello di considerare il leader palestinese non più affidabile, da abbandonare agli "arresti domiciliari" di Ramallah sotto il tiro dei carri armati israeliani, con la dichiarata intenzione di trovare un nuovo interlocutore, che in realtà non esiste, ma che consente all'imperialismo americano di prendere tempo, di risolvere prima la questione Iran - Afganistan - pipe line. Nel frattempo il "giochino" costa migliaia di morti in Afganistan e nei territori occupati ma questo è il prezzo che questi popoli devono pagare agli obiettivi economici e strategici della casa Bianca, indipendentemente da chi sia il suo inquilino.

La manovra è così palese che quella accozzaglia di imperialismi nani che va sotto il nome di Ue, che si sforza di dare vita a un agglomerato imperia-listico in grado di contrapporsi allo strapotere americano, sta prendendo le difese di Arafat, lo considera ancora un interlocutore affidabile, insiste sulla necessità della nascita dello stato palestinese e propone una sorta di Piano Marshall con finanziamenti provenienti dal vecchio continente. Per i paesi europei non è cambiato nulla nello scenario Medio - orientale se non i programmi del governo di Washington. Arafat resta l'unico interlocutore possibile, e se gli Usa lo stanno scaricando tanto meglio, è il momento per inserirsi nella questione per riprendere quella politica "mediterranea" che hanno perso dopo la fine della seconda guerra mondiale e dalla quale si sono visti allontanare dalle guerre petrolifere del Golfo e del Kosovo. In realtà un altro "interlocutore" ci sarebbe, quello composto dai proletariati dell'area che si estende tra l'Egitto e l'Iran, comprensiva di palestinesi, israeliani, giordani e siriani a condizione di sottrarsi al gioco delle rispettive borghesie, smettere l'ormai inservibile divisa del nazionalismo, per marciare e contro l'arroganza dell'imperialismo americano ma anche per gettare le basi di un'alternativa sociale ed economica comunista da lanciare come sfida politica al proletariato occidentale. Per fare questo occorrono avanguardie ben radicate nelle masse, una chiara visione tattica che individui nel nazionalismo, comunque proposto e praticato, il primo obiettivo da abbattere nella coscienza di queste masse che, per secoli, si sono illuse che quello, e solo quello, potesse essere la via per raggiungere la loro salvezza e la loro emancipazione. Manca innan-zitutto un primo, anche se embrio-nale, riferimento partitico d'area che sappia coniugare le istanze di lotta e le necessità di sopravvivenza di tutti questi proletariati in chiave rivoluzionaria e quindi anti capitalistica. Ogni altro sforzo che abbia come contenuto l'isolamento dei rispettivi nazionalismi, amministrati dalle singole borghesie, finirebbe per non sortire nessun effetto se non quello di subire l'ennesimo bagno di sangue, all'interno del solito quadro economico dipinto con i colori pastello del profitto industriale, della rendita petrolifera e della speculazione, con la solita cornice di nazionalismo paludata di progressismo o di integralismo a seconda delle opportunità espresse dalle borghesie arabe.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.