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Home ›I cento giorni del cavaliere - Berlusconi mantiene le promesse, ma solo a favore del capitale
Tutto come da copione. Un governo borghese deve fare gli interessi del capitalismo secondo i ritmi, i tempi e le necessità che la base economica gli impongono. Ciò era puntualmente avvenuto con i precedenti governi di centro sinistra, la continuità è garantita dal neo governo di centro destra. Nulla di nuovo, lo spartito è sempre lo stesso, non cambia la musica, si alternano soltanto i direttori d'orchestra in una sorta di ricambio fisiologico che la moderna politica basata sulle leggi della comunicazione e dell'alternanza suggeriscono.
Che questo governo avesse occhi e attenzioni solo per la classe imprenditoriale e nessun riguardo per il proletariato, se non per un ulteriore giro di vite in termini di flessibilità e di contenimento del costo del lavoro, era nella logica delle cose e nei programmi più volte dichiarati in sede di campagna elettorale. La legge Tremonti bis ne è la lampante dimostrazione. In sintesi la legge prevede una de tassazione degli utili investiti sino al 50% dell'imponibile degli investimenti che eccedono la media di quelli realizzati negli ultimi cinque anni. In aggiunta, tutte le imprese che emergono dal nero, potranno godere per il passato di una sanatoria fiscale e contributiva. Per tre anni pagheranno solo il 10,15 e 20 per cento delle imposte e 8, 10 e 12 per cento dei contributi. In compenso, si fa per dire, il nuovo governo prevede di attuare la soppressione dell'imposta di successione. Per le donazioni d'importo superiore ai 350 milioni, anche a favore dei coniugi e parenti, si applica soltanto l'imposta di registro in misura proporzionale sulla quota di valore che eccede i 350 milioni. Sul fronte del lavoro il governo Berlusconi deciderà, con un apposito decreto legislativo, di liberalizzare i contratti a termine, togliendo i tetti quantitativi per i giovani e per gli anziani sopra i 55 anni d'età e per le aziende di nuova formazione.
Alla faccia della coerenza! Il neo liberismo ci aveva abituato a considerare lo stato nell'economia e nella finanza come un ostacolo da abbattere a tutti i costi, quale premessa allo sviluppo economico che, anche se a livelli diversi, avrebbe dovuto avvantaggiare tutti, imprenditori e lavoratori. Nei fatti, come al solito, le cose vanno in direzione diversa. Lo smantellamento dello stato imprenditore è servito a consegnare al capitale privato le imprese statali a prezzi di svendita, a costruire le condizioni di monopoli privati al posto di quello pubblico, con il corredo normativo di leggi che consentissero il licenziamento facile, la flessibilità e contratti sempre più penalizzanti per i lavoratori. Portata a compimento la prima parte di questo processo, il nuovo governo mette mano alla seconda: chiedere allo stato di riaccostarsi al mondo imprenditoriale sotto forma di finanziatore "occulto" sobbarcandosi i costi delle de tassazioni per mettere le imprese nelle migliori condizioni possibili di produttività e di scelte produttive. Come dire che lo stato, ovvero i contribuenti, ovvero i lavoratori devono pagare gli incentivi economici e finanziari alle imprese che a loro volta ripagano il mondo del lavoro, in questo caso non più contribuente, a colpi di flessibilità e decurtazione dei salari. Lo stesso discorso vale per la riemersione dal sommerso. Che le imprese debbano risalire alla luce del sole, che debbano pagare i lavoratori secondo le tabelle ufficiali, peraltro misere e in via di ulteriore immiserimento, è un dato irrinunciabile, ma che questo processo lo paghino ancora una volta i lavoratori è semplicemente scandaloso. La sanatoria significa impunità per quegli imprenditori, il 30% almeno, che hanno sfruttato milioni di lavoratori e centinaia di migliaia di minori a salari di fame, con orari lavorativi da fine ottocento, senza nessuna garanzia previdenziale e sanitaria, con metodi schiavistici e con il più violento dei ricatti sociali, la fame. Inoltre la sanatoria significa che lo stato, ovvero i contribuenti, ovvero ancora una volta i lavoratori, regali agli imprenditori che accettino di salire allo scoperto, soldi, tanti soldi sotto la forma di diminuzione della pressione fiscale e contributiva per ben tre anni.
Sulla questione delle successioni e delle donazioni siamo in piena farsa. La legge, così come è concepita, è palesemente il mezzo che il Cavaliere ha studiato per risolvere, senza spendere una lira, il suo conflitto di interessi, se per farlo c'è bisogno di una legge nazionale, ben venga, chissà, in futuro qualche altro suo collega potrà usufruirne.
Siamo in piena tragedia invece sul decreto legislativo che deve regolare la liberalizzazione dei contratti a termine. Dal tutto all'impresa, pagato dallo stato, si passa al niente per il mondo del lavoro sancito dagli organismi del governo in termini autoritari e arroganti. Com'è noto la strada era stata già tracciata dal precedente governo di centro sinistra, e il governo Berlusconi non sta facendo altro che completarne l'opera. L'obiettivo finale è quello di dare in pasto al capitale un proletariato debole sul terreno sindacale, umiliato su quello normativo, diviso nella sua identità di classe, con pochi diritti e tanti doveri nei confronti dell'impresa, utilizzabile solo quando fa comodo, licenziabile quando è necessario. Non più un lavoro, anche se mal pagato, e un posto di lavoro, ma un lavoro a termine che non prevede un posto fisso e che si esaurisce nel momento in cui fa comodo all'impresa, senza conseguenze giuridiche per chi è chiamato ad amministrare questa nuova normativa nel rapporto tra capitale e forza lavoro. Più avanti, ma non dovremo aspettare molto per vederlo, gli spetti normativi e i salari saranno direttamente legati al saggio del profitto dell'impresa e non più soltanto al suo andamento di mercato. Il primo passo è quello relativo all'introduzione del salario flessibile che, come tutte le altre normative anti operaie, troverà inizialmente l'opposizione sindacale, per poi essere accettato in nome dei sacri e superiori vincoli dell'interesse collettivo.
Queste le novità più importanti nel programma dei cento giorni del governo Berlusconi. Quali le novità sul terreno dell'opposizione, da quella istituzionale, a quell'altra sedicente riformista e progressista? Nessuna o quasi. IL variegato mondo della borghesia di sinistra, quello che ha perso le elezioni, che ha preparato il terreno politico ed economico alla borghesia di destra, tace o al massimo borbotta qualche improbabile sortita, più piegato su se stesso e sulle ragioni della propria sconfitta che in grado di mimare qualche attacco al nuovo governo.
L'unico che ha tentato di prendere le distanze dai provvedimenti del governo Berlusconi è stato il solito Cofferati, un po' per onore di firma, un po' per quel ruolo d'opposizione che l'esistenza di un governo di destra gli impone. Due sono state le direttrici sulle quali si è mosso nel tentativo di dare una risposta. La prima riguarda il concetto di concertazione tra governo e sindacati, la seconda si riferisce ai contratti a termine. Nel primo caso Cofferati accusa il governo di non aver rispettato le forme, dopo averne introdotto la liberalizzazione attraverso un decreto legislativo, senza concertare con la controparte, in altre parole di aver messo i sindacati di fronte al fatto compiuto in materia di contratti e di lavoro. Ben detto "compagno" Cofferati, andava denunciato per questo il Cavaliere, ma quante volte il sindacato ha fatto lo stesso con i lavoratori. Quante volte i sindacati sono andati a firmare contratti capestro con la controparte imprenditoriale per poi presentarsi davanti ai lavoratori a cose fatte. Ben venga una critica al governo per non aver rispettato i patti della concertazione, ma guai a quei sindacati che facessero lo stesso nei confronti del proletariato. Non è forse con questa prassi che, poco per volta, concessione per concessione, si sono introdotti nel rapporto tra capitale e forza lavoro i primi contratti a termine, il salario d'ingresso, il lavoro interinale, i contratti d'area, i patti sul lavoro e tutto quanto oggi pesa sulle spalle del proletariato, senza che fossero organizzate assemblee all'interno delle quali discutere e poi eventualmente delegare i sindacati a firmare ciò che i lavoratori avevano deciso. È quasi sempre avvenuto il contrario, i sindacati, rispettosi delle compatibilità e della pace sociale, hanno prima firmato i contratti e poi li hanno calati sulla testa dei lavoratori. La reazione di Cofferati sembra più il rammarico di essere stato escluso dalla concertazione che lo sdegno per i contenuti della stessa. Sui contratti a termine il lamento di Cofferati assomiglia al pianto del coccodrillo. La normativa che li ha introdotti, ormai sono anni, è uscita dalla triplice concertazione tra governo, imprenditori e sindacati che a suo tempo hanno unanimemente ritenuto necessaria la sua introduzione a difesa delle necessità del capitalismo italiano, per le inderogabili leggi del profitto e per una questione di competitività sul mercato internazionale. Aperta la strada, create le condizioni perché i contratti a termine fossero, al pari del lavoro interinale, il perno attorno al quale dovevano ruotare i rapporti tra capitale e forza lavoro, piangere sulla loro ulteriore dilatazione è come rammaricarsi delle conseguenze che altri gestiscono senza fare menzione alle cause di cui si porta la responsabilità.
Ciò non deve suonare come monito ai sindacati, avvezzi purtroppo a prassi come questa, ma al proletariato che deve imparare a delegare di meno e a prendere in mano i suoi destini sul terreno della lotta contro il governo, contro le compatibilità, contro i sindacati che di queste hanno sempre fatto il limite della loro azione.
fdBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #7
Luglio 2001
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