Statistiche virtuali e condizioni reali

Salari e orari di lavoro fra l'incudine e il martello del capitale

Da tempo la Confindustria andava sbandierando uno studio Ocse (basato su dati 1966) da cui risulta che il costo del lavoro in Italia, calcolato su base oraria (salario netto in busta più trattenute per contributi e imposte), è al 4 posto mondiale dopo Belgio, Germania e Svizzera. Seguono Olanda e Usa; quindi Francia (9) e Gran Bretagna (11).

Da tale rapporto si deduce inoltre che se una azienda italiana spende 100 per un posto di lavoro, il 51% va allo Stato e il 49% nella busta paga dell'operaio. In totale un lavoratore costa agli industriali 32.064 dollari, pari a circa 54 milioni di lire annue. In virtù della media statistica, ogni lavoratore riceverebbe poi una paga annuale al netto pari a 26 milioni 500 mila lire (fra le più basse dei maggiori Paesi industrializzati). Ma l'ultimo rapporto Cnel dice che in Italia il 15 per cento dei lavoratori vive con un salario medio compreso fra 13 e 15 milioni annui.

La tabella Ocse, nonostante sia vecchia ormai di due anni, viene periodicamente riproposta sulla stampa d'informazione per avvalorare la tesi, per altro indiscutibile, dell'alto prelievo in tasse e contributi esercitato sui salari.

L'ira funesta della Confindustria veniva in seguito raffreddata dallo stesso Governo, e proprio nel nome di quella competitività delle merci italiane alla quale il focoso presidente Fossa si appella ogni giorno. Sul tavolo appariva a questo punto ufficialmente un'altra tabella "inedita" dell'Ocse, nella quale si legge ciò che da anni vanno ripetendo i quattro gatti di Battaglia comunista: "fatto 100 il costo del lavoro negli Stati Uniti, in Germania è 166, in Francia 163, in Giappone 169, mentre in Italia è 101; sotto di noi in Europa c'è solo la Spagna".

Improvvisamente, gli esperti delle varie bande borghesi si son trovati d'accordo nel misurare il costo del lavoro per unità di prodotto, come avviene in tutte le statistiche di macro-economia e nel calcolo del livello dei cambi e delle spinte inflazionistiche. Non solo: le aperture di credito fra Confindustria e Governo si sono addirittura allargate: unitariamente, visti i buoni risultati fin qui conseguiti, ci si prepara a intensificare gli attacchi al solito capro espiatorio, cioè ...il costo del lavoro. Persino sulla bidonata nazionale delle 35 ore, è comune la convinzione che con la concertazione fra le parti si potranno alleviare quelle conseguenze nefaste, annunciate in un primo momento dagli industriali in risposta alla euforia demagogica del compagno Bertinotti. Anzi, ora si parla di possibili risultati positivi per gli interessi del capitalismo.

Ed anche sugli orari di lavoro praticati in Italia, arrivano alcuni dati interessanti. Fra i circa 20 milioni e mezzo di occupati, 500.000 lavorano meno di 18 ore alla settimana; 15 milioni e mezzo lavorano tra 18 e 40 ore la settimana; 4 milioni e mezzo superano di gran lunga le 45 ore settimanali, grazie a prestazioni straordinarie senza limiti. (E il governo D'Alema non ha perso tempo a legalizzare tale situazione, del resto imperante in tutta l'Europa degli oltre 18 milioni di disoccupati.)

Ma allora, dirà qualcuno, ha ragione Bertinotti: con le 35 ore settimanali si libererebbero almeno due milioni di posti lavoro, e non vi sarebbero più disoccupati. Già, ma ad una ben precisa condizione: l'abbattimento del modo di produzione e distribuzione capitalistico e dei dominanti rapporti sociali borghesi . Esattamente ciò che nessun Bertinotti, tanto in versione nazionale che europea, mai si sognerebbe, neppure nella fantasiosa ipotesi di una democratica conquista della poltrona di Presidente del Consiglio.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.