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Home ›A chiusura del centocinquantesimo del Manifesto
Alla chiusura del 1998, centocinquantesimo anniversario della stesura del Manifesto, coloro che lungo gran parte di questo secolo, in quanto stalinisti, sono stati agenti soggettivi della più grande e drammatica mistificazione del marxismo, si ritrovano a convegno per interrogarsi e sparlare nuovamente sul significato del Manifesto stesso.
Personaggi come Chiarante, Natoli, Parlato, Rossanda si ritroveranno l’11 e 12 dicembre a Roma, sotto gli auspici, fra gli altri, dell’Assessorato alle politiche culturali del Comune di Roma, per discutere de “Il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engles 150 anni dopo”.
A presentare al pubblico il tema e le linee di sviluppo delle trattazioni ci pensa la Rossanda su Il Manifesto (giornale) del 9 dicembre.
Cosa ne risulta? Innanzitutto rileviamo la tormentata passione di questa signora che ha trascorso in piena militanza gli anni ruggenti della socialdemocrazia stalinista e che ora si chiede “perché è avvenuto” che il politico abbia reso le armi all’economico, che il declino dell’esperienza dello stato del movimento operaio (la Russia, eccola qui la vena stalinista di sempre) trascini “con sé la fine dell’idea del politico.”
Al di là dei drammi intellettuali di Rossanda (che per malignità vorremmo fossero più acuti), ci sono al fondo le mistificazioni di sempre.
Le famose righe di apertura si commentano da sole: lo spettro del comunismo - temibile angelo con la spada fiammeggiante per i borghesi e liberatorio dalla miseria per la grande maggioranza degli uomini - non aleggia più sull’Europa, e da assai prima del 1989.
Intanto, è evidente che “prima del 1989” significa prima della implosione del blocco sovietico. E allora, quanto prima, compagna Rossanda, se dici che
il Novecento ha veduto il movimento operaio costruire i suoi partiti e creare un suo stato?
Noi, a filo di critica dell’economia politica, abbiamo sempre detto che quello non fu stato operaio che per pochissimi anni dopo l’assalto, e poi fu stato capitalista di un capitalismo particolare, di stato appunto. Ma non per questo dicemmo mai che lo spettro s’era dissolto.
Si era allontanato, ritirato dalla visibilità, messo sullo sfondo dalle reali spade fiammeggianti (cannoni, carri armati e missili) del nuovo polo imperialista sorto sulle macerie dello stato operaio.
Ora lo spettro del comunismo torna a riaffacciarsi, nel tormentato processo di crisi del capitale, quale unica bandiera e speranza per i miliardi di uomini alla fame e per lo stesso pianeta minacciato nei suoi equilibri naturali dalla selvaggia caccia al profitto e alla rendita e dalle sue condizioni materiali di esistenza.
È il comunismo il rivolgimento dell’ordine esistente che consentirà, nel suo modo di produrre, il diverso, radicalmente diverso modo di distribuire, che è poi quella “politica” che la Rossanda e tutti i radical-socialdemocratici rivendicano.
Eccolo il loro tormentone, a chiusura del pezzo di Rossanda:
Ma soprattutto, si può far politica, pensar politica, nel pianeta capitalizzato senza pensare a un rivolgimento dell’ordine esistente?
No, diciamo noi. Non si può far politica, non si può più mediare fra le classi in gioco (giacché questa è la politica nella borghese democrazia). Oggi è la borghesia all’attacco, con il proletariato in veste solo di “capitale variabile” da diminuire, tagliare, svalutare. Se i proletari reagiscono e tornano all’attacco, non c’è mediazione possibile in questo ciclo di accumulazione, o si vince e si attua il rivolgimento, o si sconta un altra grave sconfitta e si resta in miseria.
La politica, del Manifesto dei comunisti, è preparare le condizioni dell’assalto.
Troppo difficile pensa Rossanda e con lei tutti i socialdemocratici “nel DNA”.
Manca il soggetto, almeno per ora, concede.
Il proletariato è cresciuto, ma sono finiti i grandi addensamenti - e quando ci furono qualcosa non ne fece la forza d’urto mondiale - e la comunicazione, che doveva fungere da grande veicolo di unificazione, non ne unifica le molte membra diffuse.
Vero, e a nostra volta concediamo che Marx non ha previsto (né lo poteva) la frammentazione del processo produttivo resa possibile dalla terza rivoluzione tecnologica e dunque del proletariato stesso. Ma di nuovo facciamo attenzione all’inciso di Rossanda sui grandi addensamenti. Cosa fu quel “qualcosa”? Non andrebbe appuntato qui l’interrogativo dei dotti che si interrogano sul Manifesto del partito comunista?
Torniamo a sintetizzare la nostra risposta: ciò che impedì che le grandi concentrazioni operaie, “fordiste”, fossero forza d’urto contro il capitale e “spada fiammeggiante” dello spettro fu il disarmo politico, ideologico organizzativo in cui furono ridotte dalla sconfitta degli anni 20, e dalla controrivoluzione in Russia e nell’Internazionale.
C’è una guerra di mezzo, poi. Come spiegano, i dotti , che i grandi addensamenti operai abbiano subito la seconda guerra imperialista? Oppure la seconda guerra non fu imperialista, ma - così come recitano i libri di storia - la guerra della libertà-democrazia-socialismo contro il nazi-fascismo?
Già questo è un altro punto nodale che viene allegramente glissato. Dovremo aspettare il centenario (2045) perché questa genia socialdemocratica si interroghi sulla natura di quella guerra.
Eppure è un elemento chiave per chiunque si dichiari pur soltanto materialista. Viene evitato perché dentro la favola ufficiale della “guerra di libertà”, sta il ruolo comunque progressista, comunque democratico, in fondo socialista, dell’Urss. È per questo che la favola è tanto cara alla Rossanda, tanto da rimanere nell’intimo, nell’imprinting culturale, da non parlarne.
E invece no. Fu guerra imperialista, in cui l’Urss giocava il ruolo di grande attore, partecipe poi della grande spartizione del mondo che segnò la storia fino al 1989. La storia del capitale, della borghesia, nella quale la classe operaia è tornata ad essere, dopo i soprassalti degli anni ’20, soggetto passivo, ovvero oggetto.
È evidente che stiamo usando - per usare la terminologia dei dotti - paradigmi diversi, noi e loro.
Noi collochiamo il Manifesto quale opera fondante di un movimento che, fra alti e bassi (e vive oggi e da tempo uno dei suoi più bassi), ha saputo vedere e riconoscere quel che la dinamica del capitale gli presentava, per trarne motivi di affinamento, aggiornamento (perché no?) di una tattica di assalto al cielo: il movimento rivoluzionario. Loro, avendolo a suo tempo mistificato come fondante una pratica stalinista e socialdemocratica, comunque borghese, lo “ripensano” per vedere se lo possono utilizzare ancora a base del neo-riformismo che molti di loro propugnano. Magari rispolverandolo insieme ai testi radical di Keynes.
In questa chiave siamo quindi portati a leggere anche il dramma intellettuale della nostra signora della sinistra
Movimenti, classe globale, soggetti di rivolta, la rivoluzione femminile scartano da sé la preminenza del modi di produzione, di Marx non salvano nulla che non sia, in senso stretto, pre-marxista. Per usarne qualche lacerto dobbiamo abbattere il Manifesto?
Sissignora. Fateci il favore, “abbattete” il Manifesto (cambiate nome anche al giornale). Di quei movimenti, di quei soggetti di rivolta, di quella rivoluzione femminile (quale poi?) il vecchio Marx non saprebbe che fare, se non osservarli quali fenomeni di una formazione sociale in decadenza, in preda ai malesseri, ma incapace di partorire quella nuova. Torna prepotentemente il tema della classe levatrice di storia..
“L’idea di sé del proletariato sembra frantumata” - dice Rossanda. È frantumata, e se un soggetto politico esiste di questa frantumazione d’identità della classe, esso è proprio quella socialdemocrazia stalinista da cui vengono gli attuali radical-chic. Occorre aspettare ed operare per la ricomposizione della classe, prima di occuparci di riportare a unità anticapitalista le tensioni della società civile.
Ma loro no. Vogliono usare le tensioni della società civile (i movimenti tutti e indeterminati, il femminismo, le “soggettività antagoniste organizzate”) qui e ora, per fare politica. Del rivolgimento, in fondo non gliene frega nulla e tantomeno della classe operaia. Che lascino dunque la presa sul Manifesto del partito comunista. Che decidano che è superato in quel convegno e riscoprino i nuovi lidi dell’ispirazione teorica: il pre-marxismo, appunto.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #12
Dicembre 1998
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