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Home ›A vent’anni dal Settantasette
Miti e realtà di un movimento che nulla aveva da dare
In queste settimane “il Manifesto” sta rievocando il “Movimento ‘77”; un’occasione ghiotta per i radical-riformisti di quel giornale per sbrodolare i soliti autocompatimenti sulla “sconfitta della sinistra”, sulle trasformazioni del “post-fordismo”, sulla “fine delle ideologie del vecchio movimento operaio” e giustificare così il loro ruolo di riformistiche stampelle di questa società.
Noi, invece, se ci occupiamo di anniversari, non lo facciamo per gusto intellettualistico, ma per chiarire e ribadire il nostro punto di vista su fatti che, come sempre, sono stati il prodotto delle dinamiche classiste del sistema capitalistico.
Il ‘77, esaltato dalla cosiddetta “sinistra antagonista” - cioè l’odierna Autonomia in tutte le sue varianti - sputazzato e “oscurato” dalle organizzazioni dalla sinistra istituzionale, Sindacato ed ex PCI in testa, per noi non è stato altro che l’ennesima prova di come ogni movimento ribellistico finisca in una bolla di sapone se manca il partito rivoluzionario che lo diriga verso obiettivi di classe. In quel caso, però, questa eventualità era oltremodo scarsa, non solo e non tanto perché la nostra possibilità di intervento era limitata (come quella di tutti i gruppi della Sinistra comunista), quanto per la composizione sociale del movimento, in gran parte piccolo-borghese e studentesca. Certo, non mancavano frange di quello che era chiamato il proletariato giovanile, il quale, secondo i deliri di Revelli - papa del neoriformismo - e dei teorici dell’Autonomia, avrebbe addirittura inceppato il meccanismo di accumulazione del capitale con i suoi “comportamenti eterodossi, imprevedibili.... le bizzarre trasgressioni, le... culture metropolitane incompatibili con l’etica del lavoro e con la stessa idea del lavoro normato e stabile [se voleva la precarietà, il capitale gliene sta dando da stancarlo, n.d.r.]”, ma il grosso del Settantasette apparteneva al mondo instabile della piccola borghesia, la quale, quando si muove senza la classe operaia, può fare solo dei disastri.
Quelle masse di giovani studenti, ancora profondamente segnate dalla ideologia sessantottarda - sebbene in stato di avanzata decomposizione - di fronte alle prime avvisaglie della crisi sul cosiddetto stato sociale e sull’organizzazione della scuola, risposero nell’unico modo che sapevano ossia in maniera violenta ma scomposta. Inoltre, non solo erano di fatto separate dal proletariato (senza distinzioni anagrafiche), ma addirittura elaborarono - chi per loro - una teoria che esaltava quella separazione, con la contrap-posizione del tutto arbitraria tra “garantiti e non garantiti”.
Secondo questo punto di vista, le dinamiche del capitale avevano prodotto, da una parte, una classe operaia ancora di vecchio tipo, docile al “comando del capitale” sia per gli alti salari e la sicurezza del posto di lavoro che per l’adesione all’etica professionale e all’ideologia “socialista” dei partiti di sinistra, dall’altra, una forza lavoro prevalentemente giovane che la ristrutturazione della fabbrica “fordista” aveva reso precaria, “non garantita”, appunto priva di quelle presunte garanzie di cui invece avrebbe goduto il nucleo più tradizionale del proletariato industriale, compreso il mitico operaio-massa. Ora, è vero che alcuni teorici del ‘77 avevano colto qui e là qualche sprazzo di verità - forse perché non si erano ancora sbarazzati del tutto degli ultimi residui di marxismo - ma è anche vero che quelle parziali intuizioni erano completamente sganciate da una critica organica del capitalismo, per cui non potevano, né, soprattutto, volevano dare indicazioni strategiche sul come distruggere il modo di produzione capitalistico. In mancanza di prospettive concrete e credibili, era così aperta la strada ai bamboleggianti più cretini della cosiddetta ala creativa, quali le facce dipinte, gli infantili girotondi davanti alle forze dell’ordine in assetto di guerra, gli isterismi da bambini viziati pretendenti da mamma borghesia il soddisfacimento immediato dei propri bisogni “qui e ora”, indipendentemente da ogni considerazione sulle vie da imboccare per ottenere tutto questo: la sedicente critica della politica è tutta qua. Insomma, i “creativi” erano (forse) convinti che per le loro belle facce (dipinte), per quattro concerti di musica punk o new wave, la borghesia si sarebbe tirata docilmente da parte, spalancando le porte ad una società di piccoli - e alternativi, perbacco ! - bottegai, artigiani, attori e musicisti.
Chi, invece, più seriamente, si poneva in qualche modo il problema del potere, doveva scegliere tra l’Autonomia e le cosiddette organizzazioni combattenti che, benché prive di un programma autenticamente rivoluzionario, per il loro radicalismo verbale e per l’uso della violenza (a vari livelli e in modo diverso, naturalmente) attraevano, purtroppo, migliaia di giovani compagni/e che sinceramente volevano lottare contro il capitale, contro il suo stato e i suoi organi, non ultimi certamente PCI e Sindacato, indispensabili com’erano per far ingoiare alla classe operaia le stangate dei governi di “unità nazionale”, le prime di una lunga serie di quest’epoca “post-fordista”.
Per aprire una parentesi: cosa facevano i sig.ri Cossutta e Bertinotti quando Andreotti e Berlinguer vent’anni fa tagliavano la scala mobile, le liquidazioni, le festività? Chiusa parentesi.
Era inevitabile che l’incazzatura e la delusione delle masse operaie perplesse e disorientate dalla “politica dei sacrifici”, da una “sinistra” alla quale, nonostante tutto, credevano, non si incontrassero con la rabbia e l’istinto di ribellione di quei giovani proprio a causa dell’inconsistenza teorica e dell’avventurismo fine a se stesso dell’Autonomia e dell’inutile e quanto mai dannoso - dati i tempi e i modi - lottarmatismo delle B.R. o di Prima Linea.
Il “Contropotere” per cui si scatenarono violente dimostrazioni, per cui compagni/e morirono sulle piazze, non poneva mai organicamente il problema dell’abbattimento dello stato e alla fin fine si riduceva alla rivendicazione di una nicchia o, per meglio dire, di un ghetto dentro i rapporti sociali borghesi: le ombre di Bernstein e di Gramsci, padri diversi di uno stesso riformismo, si stagliavano dietro le mani alzate nel segno della “compagna P.38”.
La sconfitta, dunque, arrivò puntuale e prevista (da noi), lasciando dietro di sé solo macerie, tra cui un’Autonomia ancora più stinta, perché - tranne qualche spezzone - ormai quasi totalmente priva di quelle discriminanti classiste che, seppure in un’ottica quanto meno pasticciona, caratterizzava-no ampi settori dell’ “arcipelago autonomo”.
Molti dei “non garantiti” di allora, e di sicuro la quasi totalità dello strato dirigente, ritornando tra le braccia accoglienti delle loro classe d’origine hanno trovato il modo di garantirsi, di “autovalorizzarsi”, di soddisfare qui e ora i propri bisogni, inserendosi a svariati livelli nei meccanismi di riproduzione e di potere di questa lercia società: professori universitari, giornalisti leccaculo, imprenditori, “artisti”, bottegai “di tendenza”, ruffiani di questo o quel partito parlamentare. I “garantiti”, invece, scherniti, insultati, beffeggiati, criticati dal “Movimento ‘77” per la loro sottomissione ai Lama e ai Berlinguer (il che era vero), ma da un angolo visuale antimarxista incapace di valutare il peso tremendo di cinquant’anni di stalinismo e, più in generale, il rapporto tra classe in sé e classe per sé, i “garantiti”, dicevamo, hanno subito di tutto. In questi ultimi vent’anni sono stati licenziati, supersfruttati, oppressi, immiseriti, zittiti: le “garanzie” che avevano ottenuto a prezzo di dure lotte, sono state smantellate una ad una sotto l’avanzare inesorabile della crisi capitalistica, praticamente senza vere reazioni di classe, ossia fuori e contro gli sporchi maneggi sindacali.
È anche per questo che, a costo di ripeterci, non ci stanchiamo di sottolineare come la rabbia, gli scontri di strada, le molotov, da sole non possono cambiare radicalmente questo modo di vivere se non si inseriscono in una più ampia strategia rivoluzionaria che solo il partito di classe può indicare. Ed è anche per questo che ci battiamoper la priorità d’oggi, un oggi che dura da tanto: costruire quadri, costruire organizzazione per radicare di nuovo nella classe la prospettiva e l’ideale del comunismo, per riprendere la strada alla rivoluzione proletaria (che nessun settantasettardo ha mai chiarito a sé, e tantomeno agli altri).
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 1997
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