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Home ›Onorio ad Alfa - 6 ottobre 1951
Ripiglio la conversazione al punto in cui è stata lasciata dalla tua lettera del 31 luglio, e abbozzo alcune note riassuntive a mo' di conclusione.
Il mio appunto critico si era particolarmente indirizzato su quel tuo perder tempo della rivoluzione se non avesse prima provveduto a far fuori il più importante centro capitalistico, universalmente individuato oggi nello Stato di Washington.
Qui convieni con me, né poteva essere altrimenti, che non si intendeva vietare tentativi rivoluzionari o fare una graduatoria di tentativi. Per noi marxisti non si tratta invero di “vietare” ma di riconoscere che l'esplosione rivoluzionaria in qualunque punto dello schieramento capitalistico possa avvenire, esprimerà - qui il punto - una sua capacità e potenza esplosiva e di irradiazione su cui la strategia della rivoluzione socialista punta per investire dall'esterno e cercare di “far fuori” lo Stato di Washington. Anche tutto ciò va inteso storicamente, ma non sottinteso, per evitare di discuterne la validità sia in sede teorica che in quella politica. Ne convince l'aver messo in linea un argomento politico che vorrebbe essere di propedeutica rivoluzionaria verso quei proletari che dovrebbero giudicare per contro-rivoluzionarie le forze politiche della Russia sovietica che sono state alleate di quelle americane nella fase più decisiva del loro cammino alla egemonia; argomento su cui non si può non essere d'accordo ma che messo lì sa di mero accorgimento polemico per evitare di centrare il problema della intima capacità espansiva nel mondo di ogni episodio di rivoluzione vittoriosa, dovunque questa vittoria rivoluzionaria si fosse affermata.
Così, per incidens, ricordo d'avere letto sulla nostra “Battaglia” qualche cosa che vorrebbe essere in posizione originale tra le nostre due tesi che in fondo hanno cessato di divergere dal momento che tu accetti che la rivoluzione può scoppiare là dove il fronte del capitalismo appare più debole all'assalto del proletariato. La tesi sostenuta dallo scrittore di “Battaglia” è un saggio assai significativo del modo con cui vien posto il problema della rivoluzione: la polemica politica di partito al posto d'un esame dialettico.
Si pone la rivoluzione antistalinista come “conditio sine qua non” perché sia reso possibile di far fuori lo Stato di Washington. Ma non si chiede se questa rivoluzione in quanto opera del proletariato, risolve il problema fondamentale di classe che è quello della distruzione dello Stato capitalista che consente il passaggio dell'economia capitalista sul piano della produzione e della distribuzione socialista. Questo non è detto perché chi lo ha scritto crede ad una rivoluzione evirata dei presupposti deterministici essenziali nella concezione marxista.
Siamo ad un ritorno di fiamma dei motivi di pura marca idealista e volontarista che credevamo definitivamente sorpassati almeno nel seno di questa nostra sparuta avanguardia.
La rivoluzione antistalinista per il fatto stesso che è realizzata dal proletariato avrà tutti i caratteri dell'anticapitalismo oppure si ridurrà alle proporzioni di un banale episodio di rivoluzione di palazzo e di cambio di guardia.
E poiché siamo ad una applicazione del metodo dialettico ripiglio il filo della nostra conversazione per dire quel che penso anche sul tuo “modo” di dialetticizzare la storia.
Il gioco contraddittorio dei tuoi “sì” e “no” non mi pare si liberi del tutto dalle maglie della dialettica formale; gli esempi storici che citi se hanno valore dimostrativo nei riguardi del tuo assunto, non soddisfano in pieno l'esigenza d'una valutazione dialettica del moto rivoluzionario della nascente borghesia. I dati che desumi dall'esperienza inglese sembrano formalmente esatti, ma chi pensa e crede ad una specie di sincronicità non soltanto temporale tra il moto delle cose del sottosuolo e il moto delle forze sociali e politiche della sovrastruttura, pensa e crede secondo i precetti d'un determinismo meccanicista che ripugna al materialismo storico inteso come lo intendeva Marx più “storico” che "materialismo".
Ti ricordo con Bukharin che
“ogni contraddizione tra le forze produttive e l'economia si appiana rapidamente, esercita rapidamente la sua influenza sulla sovrastruttura, poi la sovrastruttura a sua volta sull'economia e le forze produttive, e il circolo ricomincia senza posa.”
Non si tratta insomma di cogliere soltanto la contraddizione tra una progredita economia inglese a carattere capitalista e una relativa politica di partiti e di governo in funzione anticonvenzione e antinapoleone.
Il dipanarsi della rivoluzione industriale inglese aveva posto il problema d'una organizzazione sociale politica e d'un costume borghese come esigenza rivoluzionaria il cui affermarsi e progredire andava misurato sul metro della quantità delle forze economiche politiche e sociali dell'antico regime da vincere e sulla loro materiale capacità di resistenza.
Ti sei chiesto se la rivoluzione industriale inglese era stata poi soltanto inglese?
È poi accettabile quanto tu affermi che “tutte” le forze di sovrastruttura inglese fossero in questo periodo in funzione controrivoluzionaria? Che lo fossero in buona parte e prevalenti nella politica estera per la necessità della lotta per il predominio sul continente che la Francia minacciava è spiegabilissimo, ma che lo fossero in “toto” no. In ogni caso la lotta sul piano politico tra le forze dell'antico regime dure a morire e le nuove forze liberali espresse dalla rivoluzione industriale non significava che il moto borghese dovesse dialetticamente realizzarsi. Il movimento illuministico trovò la sua prima formulazione in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1688 e si concluse con l'assalto alla Bastiglia che fu del resto una risposta, la prima di una serie di risposte rivoluzionarie, alla istanza posta internazionalmente dal nascente capitalismo.
Comunque la linea di sviluppo storico del moto liberale è facilmente individuabile e cesseremmo di capire nel suo complesso e nelle sue contraddizioni l'affacciarsi dell'Inghilterra nel mondo della moderna borghesia, se sottovalutassimo questo vasto e progressivo conflitto tra le nuove ed ingrandenti forze del moto liberale e l'antico regime, tra i difensori dell' “habeas corpus” e i ritorni dell'assolutismo, tra il mondo dei forti residui medioevali e dell'età delle lotte religiose, dei privilegi politici delle proprietà fondiarie e il mondo dell'industria e del commercio che doveva dare i motivi e le forze per la veemente lotta dei libero-scambisti. Questo è il mondo reale della sovrastruttura che dialetticamente riflette quel momento dell'economia capitalistica inglese anche quando, per la maggiore grandezza e complessità dei suoi interessi politici e commerciali nel mondo, la politica del governo era forzatamente in funzione controrivoluzionaria nei confronti della Francia della Convenzione e di Napoleone.
Ed è su questa linea di interpretazione dialettica che si perverrà alla conoscenza delle ragioni reali che erano alla base dei primi moti operai di violenta, rabbiosa azione contro la macchina ritenuta generatrice di disoccupazione e al sorgere delle prime unioni operaie a cui farà seguito un gran numero di scioperi.
C'è, in una parola, una economia capitalistica in progressiva dilatazione e affermazione a cui corrisponde una classe dirigente borghese la cui politica è liberale e reazionaria insieme, progressiva e perciò stesso sagacemente conservatrice.
Chi non sa che in ogni società nell'ondeggiamento tra il regressivo e il progressivo il gravitare verso la tradizione è ovunque e in ogni epoca prevalente?
Qualche osservazione ancora sul tuo modo di applicare la dialettica all'esperienza della Russia sovietica. Tu scrivi:
“Ripiegamento economico sociale del 1921 e rinunzia a certe forme socialiste (il punto strettamente economico dopo). Tutti noi sinistri approvammo le giustificazioni di strategia rivoluzionaria internazionale: un passo indietro per riprendere lena: risposta: no - sì - sì. Cioè l'economia sociale interna rincula, la lotta rivoluzionaria va avanti.”
Le risposte che dai “no” - “sì” - “sì” possono aver senso se riferentisi alla condizione tutta soggettiva della nostra lotta politica di allora, ma se dovessimo rispondere oggi agli stessi quesiti, non c'è dubbio che risponderemmo no a tutti e tre; non è vero cioè che l'economia sociale interna della Russia rinculava e la lotta rivoluzionaria andava avanti. Ora sappiamo che l'economia di allora ha continuato a rinculare e la lotta rivoluzionaria non è andata più avanti dalla morte di Lenin in poi né nella patria del... socialismo né altrove.
La verità è che noi della sinistra fino al 1926 ci siamo mostrati contrari alla politica di partito ma non ci siamo sufficientemente preoccupati di legare le ragioni del declino della rivoluzione proletaria nel mondo al sempre minore socialismo e alla sua scomparsa nelle organizzazioni economiche e sociali della prima rivoluzione proletaria. La colpa è semmai soltanto nostra che abbiamo preferito farci assertori d'una dialettica delle parole al posto d'una dialettica delle cose.
Non c'è automatismo in tutto ciò, d'accordo, c'è soltanto svolgimento involutivo sul piano della sovrastruttura verso la prassi borghese, riflesso d'un ritorno al modo di produzione proprio del capitalismo. È adombrata perciò di idealismo l'ipotesi da te formulata che:
“come l'economia inglese 1793 era quanto di più avanzato e la politica quanto di più reazionario, così potrebbe accadere che un paese con evoluti caratteri socialisti della economia sociale facesse una politica di partito e di guerra borghese.”
Se si tratta d'una possibilità al presente, logica vuole che il tuo riferimento sia diretto all'esperienza russa, se si trattasse invece di possibilità al futuro, l'ipotesi cesserebbe d'interessarci perché sfugge all'analisi marxista.
Constato infine volentieri come le nostre argomentazioni inizialmente divergenti sulla valutazione del capitalismo di Stato siano andate raccordandosi come era naturale che ciò avvenisse. Soltanto che la vecchia funzione dello Stato più carabiniere che interessato all'economia ha maggior rilievo nella tua visione del mondo borghese, mentre nella mia lo Stato potenzia al massimo l'esercizio della forza a particolare protezione della economia in esso accentrata contro le forze concorrenti e di urto ingigantite anch'esse su scala nazionale e internazionale.
Poichè consideriamo insieme il capitalismo di Stato “tutto sano nel reparto capitalismo”, tiriamo le conclusioni anche sul processo in Russia. Le tiro da parte mia con le tue parole che a loro volta parafrasano quanto sono andato scrivendoti sull'argomento dell'economia russa in quanto capitalismo di Stato:
“Ora da allora sulle spalle del proletariato, si è accumulato ed invertito, diffondendo industrialismo e potenziale capitalista. sempre nella stessa forma: capitalismo. Di Stato, aggiungiamo? Sia pure.
Dovunque esso sia e dovunque sia la forma economica di mercato il capitale è una forza sociale. È una forza di classe ed ha a disposizione lo Stato politico.”
Termini esatti fino al 1900, epoca in cui si suole aprire la fase dell'espansione imperialista, termini che rimangono veri e attuali anche se per sé soli incompleti quando l'evoluzione del capitalismo attribuisce allo Stato la funzione di sottrarre le punte terminali di tale evoluzione all'iniziativa privata. Varrebbe la pena documentarsi sull'attuale svolgimento di determinati settori dell'economia americana per vedere plasticamente vivo questo fenomeno, che osservatori borghesi già puntualizzano nella realizzazione a carattere di capitalismo di Stato demandata alla possente personalità del Kaiser. Non è che io vada oltre nel parlare di economia di Stato, gli è che i fatti dell'economia sono più innanzi di noi, che alla loro dinamica preferiamo a volte gli schemi fissi d'una cultura economica, che là ove cessa di combaciare con la storia cessa anche di essere marxista. Faremmo torto alla nostra capacità d'intendere rivoluzionaria-mente e alla nostra “cultura” se anche in questo fossimo dei ritardatari.
Non si tratta di discutere più o meno acutamente intorno ad un assunto teorico, ma di mettere in evidenza e precisare le caratteristiche di questa fase dello sviluppo capitalistico che pone il problema d'una particolare visione tattica e strategica ad un partito che sia di rivoluzionari e non di... frati trappisti.
Per la Russia, che non si sottrae a questa realtà, c'è di particolare secondo la tua opinione questo tendere della sua economia verso il capitalismo, vi tendono, tu dici, i nove decimi della pre-borghese società russa, come vi tende ora quel decimo di economia, che aveva tentato di divenire socialista, e che ora procede all'indietro.
Riconosciamo che la tendenza dei nove decimi è sul binario giusto, ma quella del decimo, anche nella supposizione che fosse pervenuta al socialismo, diciamo pure inferiore, non può ora tendere al capitalismo perché, a mio parere, non può strutturalmente tornare all'imprenditore privato, ma rimane funzionante con le sue caratteristiche di economia accentrata, nell'ambito dello Stato il quale ci appare oggi come lo “sbocco naturale del capitalismo secondo la teoria marxista della concentrazione”.
In questo preciso mondo va ricercata la ragione d'una politica di partito e di Stato che pute, e non in un nesso dialettico che non regge dal punto di vista storico e tanto meno dal punto di vista della lotta rivoluzionaria.
Non voglio chiudere queste note col sottacere la mia impressione su quanto hai sostenuto, o meglio sul modo come tu l'hai sostenuto. Che dirti? Allorché rileggo i tuoi scritti a distanza di tempo, quello strano senso di meraviglia e di insoddisfazione proprio della prima lettura, è tuttora presente e forse più precisato. C'è nei tuoi scritti un motivo centrale allo stato di nebulosa che non osa scoprirsi per intero, e attorno tutta una frangia di scintillio polemico dove non è difficile scorgere la tendenza ad attenuazioni e accomodamenti che sconcerta.
Il motivo centrale è dato dalla tua persuasione che l'economia sovietica nella sua marcia all'indietro verso il capitalismo non abbia ancora portato a compimento questa sua curva d'involuzione: in parole povere non è tornata tutta al capitalismo.
Da questa persuasione appena accennata discende tutto il resto, e la formulazione di un ipotetico paese con evoluti caratteri sociali che fa una politica di partito e di guerra borghese, e l'affannosa ricerca nella storia inglese e francese di esempi a mo' di riprova valida, e infine la tesi del concentramento capitalista n. 1 Stati Uniti d'America verso cui deve puntare lo sforzo rivoluzionario, mentre il concentramento russo solo in un secondo tempo e in via del tutto subordinata dovrebbe entrare nelle... grazie della Rivoluzione Proletaria.
Perché insisto tanto su questo particolare aspetto della tua interpretazione? Per le conseguenze che se ne possono trarre sul piano più specificatamente politico. In verità quel nostro metter gli U.S.A. e la Russia sulla stessa bilancia, tu non l'accetti, e non da oggi.
Non è possibile al partito rivoluzionario non praticare una politica di equidistanza, soprattutto se in periodo di guerra guerreggiata, tra un paese a massimo sviluppo capitalistico come gli U.S.A. e la Russia ad economia che tu fai tendere al capitalismo; potrebbe divenire la premessa teorica per nuove esperienze intermediste; in ogni modo verrebbe a turbare profondamente i termini della visione strategica del partito della rivoluzione nel corso della prossima guerra imperialista.
Se questo apprezzamento riassuntivo fosse però ispirato dal demone della polemica, vorrei poter prenderne atto con piacere.
Et de hoc, satis.
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