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Home ›Obama: il piano per l'occupazione “americana”
Splendori (pochi) e miserie (tante) dell'anemico riformismo obamiano
Al G20 di Washington della fine di settembre, Obama ha tirato le orecchie ai ministri europei, per la mancanza di determinazione nell'affrontare il problema del debito sovrano di alcuni stati dell'Unione Europea, che sta squassando il sistema economico-finanziario mondiale.
Posto che la crisi, per la sua profondità, può al massimo essere arginata ma non risolta da interventi di ingegneria politico-economica, posto che, da un certo punto di vista, è vero che i tira e molla dei governi europei - espressione dello scontro di interessi tra settori della borghesia europea) - aggravano le turbolenze finanziarie, l'amministrazione americana non ha molti titoli per impartire lezioni di (cosiddetta) virtuosità economica agli altri, benché si faccia forte di un risveglio attivistico in questo scorcio d'estate.
L'8 settembre, Obama ha presentato un piano per il rilancio dell'occupazione che dovrebbe imprimere una svolta all'economia statunitense e, per quella via, recuperare il consenso di una parte consistente dell'elettorato democratico, deluso dalla condotta di un presidente nel quale aveva risposto forti aspettative di cambiamento. È stata proprio la delusione - col conseguente calo di attivismo politico di tanti democratici - ad aver favorito la conquista della maggioranza alla Camera da parte dei repubblicani, i quali rendono la vita durissima al già flebile riformismo obamiano. Delle promesse che scaldavano il cuore alla base elettorale più entusiasta, niente o quasi è stato mantenuto, dalle nuove leggi anti-inquinamento (ancora recentemente rimandate o attenuate) a quelle in favore dei poveri e della “classe media”, vale a dire gran parte del lavoro salariato e dipendente.
Benché la crisi sia stata dichiarata ufficialmente finita da due anni - con un ottimismo che ricorda il Bush della “missione compiuta” in Iraq - il proletariato statunitense e parte della piccola borghesia non sembrano essersene accorti. Secondo dati ufficiali (Census Bureau, 12 settembre), alla fine del 2010 l'esercito ufficiale dei poveri era cresciuto di 2,6 milioni di unità, portando in tal modo il numero di coloro che vivono sotto la soglia di povertà a 46,2 milioni, la cifra più elevata da 52 anni a questa parte, da quando, cioè, esiste questo tipo di rilevazione. Altri enti hanno poi calcolato che se la cosiddetta ripresa dovesse mantenere questi ritmi, i poveri salirebbero di altri dieci milioni entro il 2015. Ad alimentare il mondo degli “ultimi” contribuisce in maniera determinante un mercato del lavoro poco vivace, per così dire, almeno per quanto riguarda il recupero dei posti di lavoro cancellati dalla crisi. Oggi, mancano all'appello, rispetto al 2007, quasi sette milioni di occupati e se si considera che, nel frattempo, si sarebbero dovuti creare altri quattro milioni circa di impieghi supplementari per le giovani generazioni, il deficit complessivo di nuova occupazione “post-crisi” tocca la cifra di undici milioni (per questi e altri dati, vedi l'articolo di Alan Maas, su www.alencontre.org). D'altronde, la disoccupazione ufficiale, comprendente anche i sottoccupati - per esempio, i part-time forzati - è sì leggermente calata, dal 17 al 16% circa, il che fa 25 milioni abbondanti di persone, ma, esattamente come nel nostro Bel Paese, c'è il fondato sospetto che l'attenuazione della disoccupazione nasconda il fenomeno degli “scoraggiati”, di coloro, cioè, che hanno smesso di cercare un'occupazione, frustrati dall'inutilità della ricerca. E' ovvio che un numero così alto di disoccupati renda più problematica la rimessa in moto del meccanismo dell'accumulazione fondata sul debito, andato in corto circuito, com'era inevitabile, quattro anni fa. Com'è noto, per “superare” le limitate capacità di spesa dovute ai salari bassi o, di fatto, in discesa, di settori sempre più ampli di forza-lavoro, era stato incentivato in maniera abnorme il credito al consumo, ma un conto è fare debiti con uno stipendio pieno e “sicuro”, benché magro, un altro con il sussidio di disoccupazione, quando c'è e, per altro, non in eterno. Il suo importo, infatti, si aggira sui 295 dollari la settimana, contro un salario medio (a tempo pieno) di 865 dollari. Anche per questo, il piano di rilancio dell'occupazione di Obama (American Jobs Act) risulta poca cosa, soprattutto se paragonato con quanto lo stato ha versato a istituti finanziari e corporations varie:
la Casa Bianca (sia con Bush che con Obama) ha impegnato qualcosa come 12.200 miliardi di dollari (di cui 2500 già spesi, fonte NY/Times 24 luglio 2011).
il manifesto, 3 settembre 2011
Il piano da 447 miliardi consta per la metà circa di sgravi fiscali (tra cui, dimezzamento dei contributi sociali) per lavoratori e imprese, ma mentre queste, insieme ad altri incentivi, riceverebbero 4000 dollari per ogni nuovo occupato, i lavoratori si ritroverebbero 1500 dollari in più, vale a dire nemmeno due settimane di salario. Con i fondi rimanenti, si dovrebbero pagare insegnanti, pompieri, poliziotti, la manutenzione delle infrastrutture (dalle scuole ai ponti) che, a detta di molti, stanno cadendo letteralmente a pezzi (ci ricorda qualcosa...). Da dove salterebbero fuori quei soldi? Innanzi tutto, dalla riduzione di 4000 miliardi di deficit federale in dieci anni, grazie, in primo luogo, al disimpegno di gran parte delle truppe in Afghanistan e in Iraq (1100 mld), al taglio di spese varie e, in parte, dei fondi destinati al sociale (tra cui, Medicare e Medicaid), anche se in misura meno veloce e profonda di quanto era stato prospettato, giusto per buttare un osso alla base elettorale. Infine, ma non da ultimo, ci sarebbe l'innalzamento delle tasse per i ricconi, dopo che Warren Buffet, secondo nella graduatoria nazionale dei miliardari (il primo è Bill Gates), era andato in soccorso del presidente azzannato in parlamento dai fascio-liberisti del Tea party, allergici alle tasse come i vampiri all'aglio, denunciando, per così dire, l'anomalia di un sistema fiscale che fa pagare più tasse alle segretarie che ai loro “principali” (il 35% contro il 17%). Ammesso che questi provvedimenti vadano in porto, ben difficilmente potranno far uscire la nave economica dalla tempesta. Certo, si ipotizza che potrebbero creare 50.000 posti di lavoro al mese, ma sono pochi, tenendo conto che per ogni offerta di lavoro ci sono quattro o cinque disoccupati, mentre dopo i disordini finanziari del 2001 erano 2,8; insomma, saremmo lontani da uno scossone vero all'economia. D'altra parte, l'intervento dello stato può stimolare in maniera durevole il processo di accumulazione reale (non fittizio, basato sulla speculazione finanziaria e sul debito) se esso ha già in sé le condizioni per poter reggersi in piedi. In caso contrario, non fa altro che tenere in vita un corpo esausto con la respirazione artificiale della speculazione e del parassitismo, in attesa che un “evento” straordinario (tra cui la guerra) ricrei le condizioni per la comparsa di un nuovo - e vero - ciclo di accumulazione; chi paga e pagherà il conto sarà, come sempre, la classe operaia, il proletariato intero.
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