Le conseguenze della crisi finanziaria sull'economia reale

Delle pesanti conseguenze della crisi finanziaria sull’economia reale si è già detto. Gli stessi analisti borghesi ne sono preoccupati al punto da invocare l’intervento dello stato, non solo sul terreno creditizio ma anche su quello delle imprese industriali. I piani di salvataggio delle banche e di sostegno alle strutture portanti dell’industria si sprecano. Ciò che invece è stato sottaciuto è che la cosiddetta economia reale era in crisi da tempo e ben prima dello scoppio della bolla finanziaria. Negli Usa, nonostante le assicurazione del governo Bush, i fondamentali dell’economia americana erano tutti negativi. Dal deficit federale a quello della bilancia commerciale con l’estero, dal debito delle imprese a quello delle famiglie, erano migliaia di miliardi di dollari di debito quelli che pesavano sulle spalle dell’economia americana.

La crisi ha avuto un percorso lungo e tortuoso e quando è scoppiata la bolla finanziaria dei mutui tossici le conseguenze non hanno fatto altro che mettere a nudo la drammatica condizione del capitalismo internazionale giunto al culmine del suo terzo ciclo di accumulazione. I saggi del profitto sempre più scarsi hanno spinto quote di capitale sempre più consistenti verso la finanziarizzazione della crisi, verso la speculazione alla ricerca di quell'extraprofitto che consentisse al meccanismo economico di sopravvivere un po’ più a lungo.

Quando i nodi sono venuti al pettine non si è salvato più nulla. Il sistema creditizio è entrato in sofferenza, le imprese si sono fermate, la disoccupazione è diventata una drammatica norma e i salari sono diventati sempre più miseri. Nessun settore ha potuto sottrarsi alle leggi della crisi e tra quelli che maggiormente ne hanno sofferto e ne soffrono ancora (il peggio deve ancora venire) c'è quello automobilistico. Un esempio su tutti, quello della General Motors. La più importante fabbrica americana di automobili che ha dominato per decenni il mercato mondiale, sino ad arrivare ad essere considerata uno dei simboli del capitalismo americano e internazionale, è il paradigma di questa crisi. Per tutti gli anni sessanta e settanta la casa di Detroit ha costruito il suo potenziale produttivo su di una composizione organica del capitale molto alta (più investimenti in capitale costante che in quello variabile, più in macchinari che in forza lavoro) deprimendo la profittabilità del suo capitale. Il suo saggio del profitto, infatti, è passato dal 20% al 3% negli ultimi decenni, il che ha convinto la dirigenza a stornare quote di capitale verso la speculazione togliendolo dalla produzione, con il risultato, a breve termine, di recuperare sul terreno della finanziarizzazione quanto andava perdendo su quello della produzione reale.

Finché il gioco della creazione di capitale fittizio ha funzionato, le cose sono andate bene, ma nel momento in cui la bolla speculativa è scoppiata tutto è crollato, sommando le perdite in Borsa a quelle produttive, ponendo il colosso dell’industria americana sull’orlo del baratro. Le vendite si sono ridotte del 56%. Le azioni della Gm si sono deprezzate in termini impressionanti. Dal valore di 46 dollari l’una sono arrivate a 3 nel dicembre 2008. A febbraio 2009 c’è stato un ulteriore deprezzamento del 23% che ha portato le azioni all’1,54% del valore iniziale, record storico negativo degli ultimi 71 anni, cioè dai tempi della grande depressione. La Finanziaria della Casa automobilistica (GM Ac) ha perso in Borsa quasi tutta la sua capitalizzazione. I dati ufficiali parlano di un debito pari a 28 miliardi di dollari che la GM non è in grado di restituire. Da qui la richiesta di finanziamenti da parte dello Stato per 16,5 miliardi di dollari, dopo averne già ricevuti 13,5, in una sorta di voragine senza fondo che tutto fagocita in funzione della ripresa produttiva, ovvero del rimettere in piedi quel processo di sfruttamento della forza lavoro che la crisi ha messo in discussione.

Ma le crisi non sono rappresentate soltanto da dati statistici. Dentro ci sono i destini di milioni di lavoratori, delle loro famiglie e del loro tremendo destino di rimanere senza lavoro, senza indennità di disoccupazione, senza casa e con una prospettiva di perdurante povertà. Le prime misure prese dalla GM sono state quelle di chiudere immediatamente cinque impianti negli Usa e quattro in Europa. Gli stessi analisti americani paventano che se la GM dovesse fallire, trascinando nel dramma l’enorme indotto economico che afferisce alla sua attività produttiva, sarebbero più di un milione i posti di lavoro che andrebbero persi. E se la stessa fine toccasse alle altre due majors del settore automobilistico, la Craysler e la Ford, si arriverebbe a quasi tre milioni di disoccupati. Nell’ultimo anno si sono prodotti sette milioni di senza lavoro, due soltanto nei primi mesi del 2009. Complessivamente si calcola che, compreso il cosiddetto sommerso, siano già 16 milioni i disoccupati. I lavoratori (in parte ex) che sono senza assistenza sanitaria sono passati da 40 milioni a 47. Un disastro sociale che è destinato ad aumentare entro la fine dell’anno. Non è stato un ciclone, un funesto evento naturale a causare una simile ecatombe, ma il capitalismo spinto nel baratro dalle sue insanabili contraddizioni.

Lo stesso scenario si presenta negli altri settori economici americani e internazionali, dalla Cina alla Russia, dal Giappone all’Europa. In Italia i numeri sono inferiori solo perché la crisi ha avuto come epicentro l'oltre-oceano e perché le proporzioni sono differenti, ma anche qui le cause e i meccanismi della depressione sono gli stessi. Le vendite della Fiat sono crollate del 40%, la sua Finanziaria ha perso in borsa tutto quello che poteva perdere e il valore delle sue azioni si è depresso ai minimi storici. Senza l’intervento dello Stato (almeno 5/6 miliardi di euro) sotto forma di incentivi e finanziamenti agevolati, sarebbero 600 mila i lavoratori perdenti posto calcolando anche l’indotto.

Tutto ciò non è l’ingloriosa fine del neoliberismo, da cui peraltro tutti gli operatori economici si sono affrettati e prendere le distanze dopo averlo adorato come una divinità munifica, ma la bancarotta del capitalismo, del suo modo di produrre e distribuire ricchezza, della perversa esaltazione delle sue insanabili contraddizioni.

Come uscirne? Solo con la ripresa della lotta di classe sotto la guida politica del partito rivoluzionario, che non si limiti all’aspetto meramente rivendicativo e/o difensivo, anche se questo è il punto di partenza, ma che inizi a porre anche lo scontro sul terreno dei meccanismi che il capitale pone in essere a salvaguardia dei suoi interessi economici e politici. Che si muova contro il capitale quale condizione prima dell’esistenza dei rapporti di produzione capitalistici, responsabile di uno sfruttamento sempre più intenso, della mortificante disoccupazione per milioni di lavoratori, portatore di devastanti crisi economiche che accom-pagnano il suo modo di creare ricchezza, interprete di guerre che segnano lo strumento per continuare quel processo di accumulazione e di estorsione del plusvalore che sono alla base della sua esistenza. Altrimenti si rimane sempre sull’inconcludente terreno delle compatibilità del capitale che è inconciliabilmente contrapposto agli interessi presenti e futuri del proletariato.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.