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Home ›Le architetture politiche in Asia al tempo della crisi
Nel primo squadernarsi degli effetti della crisi finanziaria, in Asia appaiono segnali di contradditorie ipotesi di ridefinizione delle relazioni interimperialistiche. Nella tre giorni giapponese del Primo Ministro indiano Manmohan Singh, dal 21 al 23 ottobre scorsi, l'Elefante e il Sol Levante hanno raggiunto un accordo strategico che la stampa borghese non ha esitato a definire storico. La dichiarazione congiunta firmata da Singh e dal neopremier nipponico Aso apre a una relazione privilegiata nella cooperazione in materia di sicurezza e difesa.
Per il Giappone i precedenti sono soltanto il Trattato con gli Usa, che seguiva la seconda carneficina imperialista mondiale, e il più recente accordo con l'Australia dello scorso anno. La partnership tra i due Paesi appare molto concreta: interazione delle forze armate e dei rispettivi ministeri di Esteri e Difesa, con esercitazioni militari bilaterali o anche multilaterali.
Se un'intesa bilaterale è di grande rilievo politico, sotto il profilo tecnico è un'opzione routinaria delle relazioni imperialistiche; al contrario, esercitazioni militari multilaterali, per la loro delicatezza politica, assumerebbero subito un profilo del tutto differente. The Hindu ricorda come i naval war games dello scorso anno lungo la Costa del Malabar, che vedevano coinvolti Stati Uniti, India, Giappone, Australia e Singapore, crearono non pochi dissapori con Russia e Cina.
Lo stesso quotidiano di Chennai ha messo in evidenza come l'accordo si candidi a influenzare un'emergente architettura della sicurezza dell'Asia. La questione è controversa, e la crisi economica ingarbuglia le relazioni in maniera intricata. Con questo accordo India e Giappone potrebbero mettere le basi per una struttura di relazioni capace di far da contenimento alla Cina. In questa direzione Tokyo opera per la prospettiva di un trilaterale su territorio asiatico con India e Stati Uniti, interpretando esigenze di Washington, secondo Foreing Affaire sempre più attenta a Nuova Delhi.
L'India, dal canto uso, inquadra piuttosto questo accordo all'interno di una direttrice asiatica, che non può escludere la stessa Cina.
L'amministrazione indiana intende questi accordi militari come una metà completata da un'intensa “cooperazione economica”, che, come sottolineato dal Segretario agli Esteri Shiv Shankar Menon, “deve ancora essere realizzata nel suo pieno potenziale”.
India e Giappone sarebbero nelle parole di Singh parte di un più ampio ”arco di prosperità” asiatico, e l'accordo appena firmato “un pilastro essenziale per la futura architettura della regione”: Cina inclusa. Se rispetto a queste ipotesi Pechino resta in una posizione di guardinga cautela, a complicarne la realizzazione contribuiscono le tensioni in maturazione tra Dragone ed Elefante indiano. Gli sguardi delle rispettive borghesie puntano entrambi l'area dal Golfo del Bengala al Golfo Persico (rotta del petrolio mediorientale), la cui sicurezza rientra non a caso nell'accordo firmato da Aso e Singh. Quella che si disegna è una complessa trama dagli esiti non scontati.
Singh è stato in Cina a Gennaio, e anche lì il suo discorso propendeva per una politica cinese di Nuova Delhi: l'India non aspira, nelle parole del premier, a un equilibrio di potenza, ma allo sviluppo di una benefica cooperazione con la Cina.
Sottolineando indipendenza nella politica estera proprio da Washington, Tokyo e Canberra che punterebbero ad architetture regionali di contenimento della repubblica popolare. In una posizione delicata l'India ha firmato accordi sul nucleare con gli Usa, che hanno fatto compostamente storcere il naso a Tokyo, ritenendo di poter tirare la corda della propria autonomia geopolitica ancora a lungo.
È quindi evidente come l'accordo raggiunto tra Giappone e India sia in potenza un terreno di scontro politico e attrito strategico, piuttosto che un elemento di stabilità dell'area e del mondo. D'altronde anche per il Giappone la situazione dei rapporti con Pechino è articolata.
Se la breve amministrazione Abe aveva privilegiato le relazioni con la Cina, Aso ha ripreso la politica indiana di Koizumi e Fukuda, quindi sbilanciata in direzione lontana da Pechino. Ma lo stesso Aso non ha esitato a proporre anche alla Cina, oltre che all'India, un fondo comune asiatico “anticrisi”.
Un fondo poi realizzato a fine Ottobre dall'Asean +3 (l'Associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico più Cina, Giappone e Corea del Sud) con un primo stanziamento di 80 miliardi di dollari. Poca cosa in sé ma con grande valore politico [Il Sole24Ore, 25 ottobre].
Soprattutto perché la “profezia sull'ascesi di un'Asia immune dalla crisi” [Il Foglio, 24 ottobre] è stata vaporizzata alla prova dei fatti, scuotendo in occidente chi pensava di ricevere un salvagente dalle economie emergenti, in oriente chi pensava, come la stessa Nuova Delhi, di poter rappresentare un'alternativa asiatica alla crisi in atto. Il dispiegarsi della crisi anche in casa propria sta accelerando la ricerca di un'azione coordinata da parte degli imperialismi asiatici, alla quale si dedicherà a dicembre un vertice tra Cina, Giappone e Corea.
In una situazione mondiale che si annuncia incandescente, forme più delineate dei rimescolamenti all'orizzonte si vedranno solo come risultato complesso di una serie di tessiture e lacerazioni delle relazioni interimperialistiche, i cui tempi la crisi non mancherà di incalzare.
mlBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #11
Novembre-dicembre 2008
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