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Home ›L'Afghanistan nel nuovo Grande Gioco
Se Rudyard Kipling fu il primo a scrivere del “Big Game” o “Grande Gioco” che sul finire del diciannovesimo secolo vedeva l’impero russo, nel corso della sua espansione in Asia, impegnato a coinvolgere le tribù dell’Afghanistan e del Tibet nella conquista dei principati indiani i quali, a loro volta, potevano usufruire dei “consigli” dei britannici, è indubitabile come un nuovo “Grande Gioco” abbia preso contorni sempre più netti e nel quale il ruolo dell’Afghanistan continui ad essere significativo.
Sempre nel diciannovesimo secolo il fondatore della moderna geopolitica, Halford Mackinder, rilevava l’importanza strategica dell’Asia centrale in quanto lì si trovavano più frontiere che in qualsiasi altra regione del mondo e, quindi, avere sotto controllo quest’area equivaleva ad avere il controllo della vecchia “via della seta”. In ciò risiede il motivo per cui ai vecchi protagonisti inglesi e russi si siano, nel tempo, venuti ad aggiungere altri imperialismi quali gli Stati Uniti, la Cina, l’India, lo stesso Iran che, con il loro intervento, hanno introdotto alterazioni geopolitiche notevoli e la cui rivalità ha modo di esprimersi in larga parte nella corsa allo sfruttamento delle riserve di petrolio e di gas. Non è un discorso di poco rilievo, in questa rincorsa, poter contare su una certa stabilità della regione, condizione imprescindibile se si vogliono controllare le rotte energetiche nonché il loro accesso al mare.
In un siffatto contesto l’Afghanistan è essenziale non solo per il fatto che si trova alla confluenza di tre aree ricche di fonti energetiche come il Medio Oriente, l’Asia Centrale e l’Asia del Sud, ma anche in quanto è il punto di incontro di tre potenze imperialistiche quali la Russia, la Cina e l’India.
La chiave di lettura dell’intervento statunitense del 2001, la persistenza dell’”Enduring Freedom” con relativo corollario di missioni militari all’estero risiede quindi in mere considerazioni di carattere economico/finanziario con buona pace dell’indistinta accozzaglia di “nobili propositi” che accompagna queste operazioni.
È tanto vero tutto ciò che a distanza di sette anni si è fatto nulla in termini di ricostruzione, per dotare questo martoriato paese di infrastrutture appena passabili o di svilupparne qualche vocazione produttiva che non sia la coltivazione di oppio o il traffico di armi o quello ancor più turpe di esseri umani.
L’Afghanistan non ha, evidentemente, prodotti né un mercato capitalisticamente fruibili per cui la sua funzione è quella di costituire una base dalla quale proiettare influenza sull’area circostante e ciò spiega come, nel 2006, l’amministrazione Bush taglia i fondi per la ricostruzione del paese portandoli da 790 a 475 milioni di euro a fronte di 8 miliardi di euro di spese statunitensi per operazioni militari ma soprattutto di una situazione economico/sociale segnata da indicibili povertà e violenza, opulenza oscena di pochi, indici di sviluppo umano miserevoli, narcomafie, corruzione: tutto questo va a scaricarsi sulla povera gente che già ha avuto modo di sperimentare le piacevolezze della guerra antisovietica, delle lotte tra i signori della guerra, del regime teocratico dei talebani spazzato via, in quanto oramai configgeva con gli interessi USA, dall’operazione “Enduring Freedom” dell’inverno 2001-2002.
Da allora però il movimento dei Talib è progressivamente rientrato sulla scena e ampie zone meridionali del paese, Helmand, Kandahar, Uruzgan e Zabul ricadono sotto il loro controllo. Volendo indagare sui motivi della rinascita talibana non si può non considerare il ruolo svolto dall’ISI (Inter Services Intelligence) pakistano né la realtà tribale dell’area Pashtun. sulla quale né il governo pakistano né quello afgano riescono ad esercitare la propria sovranità e nel quale,invese, i talebani riesco a rappresentare i valori e le usanze delle popolazioni locali oltre a provvedere alla sicurezza e all’amministrazione.
In effetti questi motivi inducono molti analisti a ritenere che la guerra contro i taliban non possa essere vinta, ciò che evidentemente ha indotto sia i pakistani che gli stessi britannici a venire a patti con le tribù locali e quindi a disimpegnarsi, in termini pratici, da tali contesti operativi. Non è questa l’opzione degli americani i quali hanno,evidentemente,seri motivi per vedere la propria leadership messa in discussione.
La Russia infatti è interessata alla futura collocazione geopolitica ed economica delle repubbliche dell’Asia centrale in un gioco che ha, tra i riferimenti principali, la direttrice Afghanistan-Pakistan-India, potente collettore di energie e di interessi da cui dipendono le esigenze di crescita della Cina e dell’India. Ma anche sulla politica securitaria la prospettiva moscovita tende sempre più a contrapporsi a Washington: se si è già manifestata nei confronti del sistema antimissilistico in Europa o della guerra in Ossezia mira pure ad un rafforzamento delle proprie posizioni in Asia meridionale a cominciare proprio dall’Afghanistan.
La riapertura dell’ambasciata a Kabul, la cancellazione del debito afgano contratto in epoca sovietica, la partecipazione di compagnie nazionali russe alla ricostruzione del paese riflettono con chiarezza la dimensione imperialista della politica russa.
Per quel che attiene la Cina si tratta del ritorno di un attore sulla scena dell’Asia centrale che può essere analizzato attraverso i legami commerciali e finanziari bilaterali con tutti gli stati dell’area assumendo, al contempo, una posizione defilata rispetto alla rivalità USA-Russia, cosa che non le ha impedito, purtuttavia, di sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di “migliore amico” del Pakistan, paese nel quale gli investimenti cinesi hanno raggiunto la cifra di 4 miliardi di dollari e dove le imprese cinesi rappresentano il 12% del totale delle imprese straniere che operano in Pakistan.
Ce n’è quindi abbastanza per delineare un quadro il cui tratto peculiare è la complessità ma dove, al contempo, si può escludere, proprio per la presenza di tanti attori, al monolateralismo che ha distinto gli ultimi vent’anni come anche il bipolarsmo che ha caratterizzato l’intera fase della “guerra fredda”, il che va a configurare un quadro contrassegnato dal permanere della guerra ed in cui la competizione si fa più serrata e la conflittualità più accesa ed i cui esiti sono tutt’altro che prevedibili.
ggBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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