Sud: l’emigrazione senza fine

Ogni anno in 270 mila lasciano il Meridione

Forse non è un caso che all’interno di molti paesi della metropoli capitalista vi siano forti squilibri fra regione e regione e che tali disparità, nonostante durino da molto tempo, non siano mai state risolte. Forse che tale ineguale sviluppo è voluto, cercato, utilissimo al rafforzamento dei capitalismi nazionali?

Da questo punto di vista il caso italiano è eclatante e peculiare. In Italia la questione meridionale nasce insieme all’Unità, e anzi, in un certo senso è proprio l’Unità a creare la questione meridionale: i centri industriali del regno borbonico, infatti, invece di essere sostenuti e incentivati furono spazzati via per favorire le nascenti industrie del nord, e la monarchia sabauda gestì il controllo dei territori conquistati con le tipiche armi del colonialismo: feroce repressione del dissenso (dietro il nome di “lotta al brigantaggio”) e alleanza con l’inetta borghesia locale, latifondista e parassitaria.

E così, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, una generazione dopo l’altra di lavoratori meridionali hanno dovuto lasciare la propria terra per cercarsi un futuro in luoghi lontani o lontanissimi: Nord Italia, Belgio, Germania, America, Australia... e oggi siamo al punto di partenza: un’indagine apparsa sul Corriere della Sera dello scorso 23 aprile (pp. 12-13) ci dice che il numero di emigrati dal Sud al Nord Italia è di nuovo molto vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando migliaia di figli di contadini meridionali raggiungevano il triangolo industriale Milano-Genova-Torino per diventare operai. Un’emigrazione molto diversa qualitativamente, ma che

tocca però le stesse vette numeriche di allora. Ogni anno, infatti, si spostano dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord circa 270 mila persone: 120 mila in maniera permanente, 150 mila per uno o più mesi, dice l’istituto di ricerca Svimez. Un dato vicino a quello dei primi anni Sessanta, quando a trasferirsi al Nord erano 295 mila persone l’anno. Parlare di 270 mila uomini e donne che ogni anno vanno da Sud a Nord per lavorare o per studiare significa immaginare una città come Caltanissetta che si sposta tutta intera per trovare un futuro.

I comuni a più alto tasso migratorio sono in Calabria:

Cirò, Petilia Policastro, Dinami, Rocca Imperiale. La zona di Cirò, in provincia di Crotone, tra il ’91 e il 2006 ha visto un calo di popolazione del 34% circa.

Un’interessante differenza - fra le tante - che distingue questa nuova emigrazione da quella del dopoguerra è il flusso di denaro: allora i soldi guadagnati al Nord

servivano a mantenere le mogli o i genitori anziani rimasti al paese e magari a mandare avanti i lavori per costruire o ampliare la casa. Oggi, al contrario, i soldi risalgono la Penisola, per sostenere gli studenti meridionali nelle Università del Nord o i lavoratori precari che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese.

Inutile dire che un tale flusso di denaro è la classica pioggia sul bagnato della boccheggiante economia meridionale.

Oggi abbiamo di fronte un’economia nazionale che da Nord a Sud annaspa sotto i colpi della crisi mondiale, un Meridione quasi del tutto privato dei suoi poli industriali e definitivamente lasciato tra le fauci del capitalismo mafioso, e un proletariato sempre più omogeneo, nella sua crescente povertà e precarietà, dalle Alpi al Lilibeo.

Bene, allora. Che si riparta da qui. Si riparta innanzitutto dal riconoscersi come classe, al di là del continente, della nazione o della regione da cui si proviene. Per cambiare tutto dalle fondamenta. Perché un domani non si debba ancora una volta cantare Partire, partirò, tocca partire.

GS

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.