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Home ›Gli strani accordi fra Siria e Israele
La diplomazia finge di muoversi, ma le cose rimangono come prima
Le alture del Golan sono state annesse allo Stato d’Israele nel corso della terza guerra arabo israeliana del giugno del 1967. Come i territori palestinesi occupati, sono rimaste nelle mani del governo di Gerusalemme senza che le richieste di restituzione da parte della Siria fossero mai prese in considerazione. Da un mese a questa parte, Olmert ha dichiarato ai quattro venti, con un’enfasi inusitata per il personaggio e per il ruolo che ricopre, che si starebbero svolgendo delle trattative riservate con Assad per la loro restituzione.
Bush ha benedetto l’iniziativa come l’inizio di un processo di pacificazione dell’area medio orientale che andrebbe nella direzione auspicata da tempo dal governo americano.
Che le cose stiano in questi termini è altamente improbabile. Le dichiarazioni di Olmert sulla restituzione delle alture del Golan alla Siria fanno il paio con le esternazioni di Bush, e di chi lo ha preceduto nella carica di presidente, sulla nascita dello Stato palestinese. È sempre successo il contrario, le promesse sono state fatte in funzione di una precaria situazione interna da recuperare o per ragioni di strategia politica internazionale e non hanno mai avuto alcun seguito. In questo caso le dichiarazioni di Olmert sembrano voler distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla vicende giudiziarie per corruzione in cui egli è convolto e che probabilmente lo costringeranno alle dimissioni, così come per Bush, parlare di pace e di distensione è un modo per lasciare la Casa Bianca in condizioni meno precarie delle attuali.
Che la Siria sia interessata alle trattative è fuori discussione, che Israele abbia affettivamente l’intenzione di restituire il Golan è al di fuori da ogni logica. La riprova è che Aryen Eldad, membro dello stesso governo Olmert, ha corretto il tiro dichiarando ufficialmente che le trattative sono solo agli inizi, che il governo israeliano sta valutando la questione nei termini a lui più convenienti e che, comunque, non se ne parlerà che tra venticinque-trent’anni. Un modo per ribadire che la questione è proiettata nel futuro, un futuro molto lontano, talmente lontano da renderla effimera nei termini generali come nelle implicazioni pratiche.
Per Israele le Alture hanno una triplice funzione. In primo luogo sono un bottino di guerra che non deve essere svalutato, soprattutto perché potrebbe rappresentare un pericoloso precedente nei confronti del mondo arabo e delle rivendicazioni palestinesi in particolare.
Cedere con la Siria, pur mettendo sull’altro piatto della bilancia congrui contrappesi, comporterebbe il rischio di scoprire il fianco sui territori occupati, su Gerusalemme est e altre questioni aperte come il ritorno dei profughi e degli insediamenti in Cisgiordania.
Secondariamente l’area in discussione è ricca di acque che concorrono alla costituzione del lago di Tiberiade, da cui nasce il fiume Giordano.
La questione dell’approvvigionamento idrico è tremendamente importante per l’economia d’Israele. In termini di sopravvivenza dell’agricoltura, dell’industria e per usi civili, il controllo del bacino idrico del Giordano e delle fonti sorgive del Golan vale quanto un giacimento di petrolio da un milione di barili al giorno.
In terzo luogo c’è l’importantissima questione che le Alture sono, da un punto di vista militare, un’area di grande importanza. Il loro possesso consente di controllare dall’alto i confini con la Siria, con la Giordania e di vigilare sull’ingresso alla valle della Bekaa in Libano. Sono un presidio strategico irrinunciabile non soltanto per la sicurezza d’Israele ma anche in chiave di quello scontro imperialistico che si sta giocando a più mani in tutta questa zona. I nemici di Israele: Hamas nei territori occupati, gli Hezbollah in Libano, i vari movimenti jihadisti trasversali a molti paesi arabi, altro non sono che la lunga mano di Siria e Iran che a loro volta sono l’interfaccia del risorto imperialismo russo. A sua volta Israele, pur perseguendo con determinazione tutti i suoi interessi vitali, rappresenta il più importante e affidabile alleato dell’imperialismo americano con il quale, simbioticamente, interagisce su tutto il fronte medio orientale.
L’acuirsi della crisi internazionale non lascia spazi a mediazioni che non siano confacenti con gli interessi imperialistici che si agitano nell’area. Non c’è dichiarazione d’intenti, vera o falsa che sia, non esiste mossa negoziale, praticabile o non, che non risponda alle dinamiche della ricomposizione imperialistica internazionale che tutto condiziona e subordina. Le dichiarazioni di Olmert non fanno eccezione. Il Medio Oriente, suo malgrado, è all’interno di questo processo, non c’è episodio che riesca ad uscire dai vincoli delle tensioni che si scatenano nell’area. Non ne esce il Libano che, nonostante l’elezione di Soleiman a capo del governo, è sempre sull’orlo della guerra civile tra le fazioni filo occidentali e quelle filo siriane con l’unica variante del partito socialista progressista di Walid Jumblat che da un fronte è passato all’altro, scegliendo la sponda imperialistica americana all’asse siro-iraniano. Non ne escono le tensioni politiche palestinesi tutte interne ai due schieramenti imperialistici che usano l’integralismo e il laicismo quali involucri con cui ingabbiare la disperazione del proletariato palestinese. Non ne escono nemmeno Siria e Israele in quanto pedine dell’asse Tehran-Mosca contrapposto alle sempre più annaspanti contorsioni di Washington.
Ma la crisi non si limita a scandire le controversie imperialistiche. Nell’area si sta abbattendo una devastante situazione di impoverimento che non ha eguali nella recente storia di questi paesi. Le rivolte del pane sono il sintomo di una condizione di miseria sempre più intollerabile. Dal Marocco all’Egitto e per tutto il Medio Oriente la fame di milioni di proletari sta mettendo a nudo la barbarie del capitalismo. In Egitto si sono avuti i primi grandi scioperi nelle più importanti fabbriche tessili, contro il padronato e al di fuori dei sindacati di stato. In Libano sono scesi in piazza i lavoratori di tutte le categorie per un miglioramento salariale che consenta loro almeno di sopravvivere. Sono le prime avvisaglie di un disagio economico destinato a peggiorare, ma la strada della ripresa della lotta di classe è ancora lunga e piena di ostacoli che vanno superati, quali il nazionalismo, l’integralismo e tutte quelle sovrastrutture ideologico-borghesi che operano all’interno del campo proletario.
fdBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #6
Giugno 2008
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