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Home ›Strage di operaie in Bangladesh
I roghi infiniti del capitale
È una strage silenziosa. Silenziosa, poiché raramente i mass media ne parlano, se non con pochi, sbrigativi accenni. Infinita, perché è inarrestabile: nel 2001 ha provocato, nel mondo, circa due milioni di morti e non si intravede nessuna inversione di tendenza. Al contrario, tutto fa ipotizzare che quei numeri agghiaccianti siano destinati a crescere.
Stiamo parlando, naturalmente, della quotidiana guerra del capitale contro l’incolumità fisica e mentale della forza-lavoro, che, se nelle nazioni del moderno “Occidente” conta le sue vittime a migliaia, nei cosiddetti paesi in via di sviluppo moltiplica quelle cifre per dieci, venti e più ancora. Non passa giorno che qualche decina di minatori non perda la vita in una delle tante miniere cinesi o messicane o di non importa quale località del “Sud” o dell’ “Est” del mondo. E quasi non passa giorno che schiere di operai, anzi, di operaie e bambini, non vengano letteralmente consumate nelle fornaci che alimentano i meccanismi del profitto.
L’ultimo rogo, in ordine di tempo, di cui a fatica si è venuti a conoscenza, è quello di Chittagong, Bangladesh, dove, secondo un rituale che nella storia del capitalismo si ripete pressoché identico da cento e passa anni, decine di lavoratori, in stragrande maggioranza donne, sono morte all’alba nell’incendio della fabbrica tessile in cui si trovavano imprigionate, perché il padrone aveva chiuso a chiave tutte le uscite. Come se non bastasse, il giorno dopo, il 25 febbraio, un’altra quindicina di operaie sono rimaste sepolte, a Dacca, nel crollo della fabbrica in cui erano occupate.
Roghi e crolli sono tutto fuorché un’eccezione nel Bangladesh, vero e proprio paradiso del capitale, al pari di tante altre regioni del pianeta. Lì nascono come funghi le Zone Economiche Speciali, dove i padroni di tutto il mondo possono rivoltare come un calzino la “propria” forza-lavoro senza che nessuno dica o possa dire niente, dove anche le più ridicole leggi “a tutela” dei lavoratori, vigenti nel resto del paese, non hanno diritto di cittadinanza.
Il Bangladesh, nato nel 1971 in seguito a una cosiddetta lotta di liberazione nazionale (meditate, gente, meditate...), è uno dei paesi più poveri del mondo: l’80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la povertà è continuamente alimentata dai contadini espropriati del loro campo con la violenza dei privati sostenuta dalle leggi dello stato, complice e compartecipe di questa colossale rapina. Lo sfruttamento indiscriminato dei terreni destinati alle colture di esportazione impoverisce anche i terreni circostanti e sconvolge l’equilibrio ecologico, trasformando eventi naturali, un tempo sostanzialmente innocui (come lo tsunami), in catastrofi umane. Dunque, il capitale può contare su di un “esercito industriale di riserva”, cioè di proletariato disoccupato, pressoché inesauribile. Per dare un esempio, un bracciante agricolo guadagna circa 70 centesimi di euro al giorno; ma un’operaia non se la passa meglio, visto che il suo salario varia dai 14 ai 30 euro al mese per un minimo di 12 ore al giorno (l’orario legale varato lo scorso anno), non di rado sette giorni su sette, il che fa, più o meno, 9 centesimi all’ora [vedi di C. Gouverneur l’articolo apparso su Le Monde diplomatique di agosto 2005]. Le aziende tessili occidentali si sono tuffate in questo Eldorado padronale e, mentre licenziano nei loro paesi d’origine, si trasferiscono in massa nel lontano Oriente, per lo più subappaltando in loco le lavorazioni. A loro volta, i padroni locali godono della benevolenza - ovviamente non gratuita - dei politicanti, laici e islamici, che assicurano la totale impunità ai padroni assassini e reprimono spietatamente ogni sia pur minimo accenno di difesa - individuale od organizzata - della classe operaia. Infatti, la miseria estrema non basta a spiegare la “disponibilità” ad una vita disumana e nemmeno la speranza che la fabbrica porti con sé la prospettiva di un cambiamento dalla condizione di assoluta sottomissione cui sono costrette le donne nelle campagne; no, senza il sistematico intervento repressivo dello stato è verosimile che la pacchia di uno sfruttamento estremo verrebbe quanto meno ridimensionata. Ma, per il momento, il futuro non promette niente di buono ai circa due milioni di operaie del Bangladesh. La fine dell’Accordo Multifibre - a cui si aggiunge l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio - ha abolito i fragili sostegni all’industria tessile di cui godevano molti paesi del “Terzo Mondo”, e tutti dovranno affrontare la concorrenza del capitalismo cinese che, oltre a praticare lo stesso illimitato sfruttamento della forza-lavoro, può contare sull’utilizzo di macchinari più moderni e quindi su di una produttività maggiore, all’incirca doppia, per dare un riferimento, delle maquilas messicane. Se, dunque, in Bangladesh o in Indonesia l’attenzione alla sicurezza sul lavoro era meno che un optional, ora è la stessa parola “sicurezza” che deve scomparire dal vocabolario: è un intollerabile costo aggiuntivo! E se qualche operaia si ostinerà a non voler morire bruciata viva sull’altare della competitività nazionale, ci sarà sempre un poliziotto o una squadraccia fondamentalista a bastonarla di santa ragione, a maggior gloria delle leggi umane e divine. $ cb
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2006
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