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Home ›Alle urne il voto di rendita
Il 9-10 aprile gli italiani andranno alle urne: poiché ovunque, fuori dalla bassa propaganda, si parla di rilancio dell’economia, ossia del processo di accumulazione capitalistico, per cosa voteranno? E quali strumenti ha la politica pubblica per attuare quel rilancio? Proviamo così a delineare le tendenze in atto cercando di definire la base sociale sulla quale, nella sostanza, poggeranno le politiche future. Prendiamo in considerazione le proposte del centro-sinistra perché un tale governo ci pare più consono per gestire, con un relativamente basso impatto conflittuale, il prossimo passaggio politico che implica la ridefinizione delle relazioni industriali e sociali. Dopo il trattato di Maastricht i governi non possono più utilizzare lo strumento del debito, cioè la determinazione autonoma del livello di spesa pubblica, stimolando la domanda aggregata più di quanto non l’abbiano frenata con la manovra fiscale. I dati sul debito pubblico, che è passato dal 57% del PIL nel 1980 al 124% nel 1994, evidenziano sia l’abuso di tale politica che la sua ulteriore impraticabilità. In questi dati sta la sostanza di ‘Mani pulite’, il sistema doveva cambiare rotta e così si sono barattati i sacrifici con una pennellata di moralità. Dopo più di un decennio di sacrifici da centro-sinistra e di finanza creativa da centro-destra siamo ad un debito pubblico che nel 2006 sarà pari al 110% del PIL, con un deficit di bilancio al 4,8%. Prioritario sarà ridurre deficit e debito, comprimendo principalmente la spesa sociale e contenendo il monte salari del pubblico impiego, non la spesa per le mostruose opere pubbliche. Ma non si è ancora rilanciata l’economia. Si può provare con la leva fiscale riducendo la tassazione sul costo del lavoro al fine di ridurre i costi per le imprese. Così facendo si riducono le entrate che potrebbero essere compensate da un aumento dell’imposta sulla rendita finanziaria portandola dall’attuale 12,5% al 20-23%, dalla lotta all’evasione, ecc. Anche la CGIL lo propugna nei documenti del suo prossimo congresso al fine di raggiungere un’equa redistribuzione del reddito. Siamo al feticcio della redistribuzione del reddito a favore di salari e stipendi, come se salari e stipendi fossero divenuti una grandezza indipendente dal processo generale di accumulazione del capitale. Come si vede però l’unica eventuale redistribuzione di reddito operato dall’intervento pubblico è tra capitale finanziario e capitale industriale, ed il punto su cui poggia tale politica è la riduzione del costo complessivo del lavoro. Chiediamoci ora quale base sociale possa essere parte di tale politica, al di là del sinistrismo, dell’anti-berlusconismo o della speranza che l’ennesimo sacrificio serva al bene dell’Italia. Politica che, come ci dice la CGIL, “vuole misurarsi, innanzitutto, con la gravità e la profondità della crisi del paese, nell’obiettivo e nella necessità di definire una proposta e un progetto per la sua ricostruzione, per la sua rinascita civile e morale, partendo, come giusto e doveroso per una grande forza di rappresentanza del lavoro, dalla centralità del valore del lavoro”. Sottolineiamo la centralità del lavoro che assurge a valore, e quanto più valore ha il lavoro tanto meno ne ha il lavoratore e con esso il suo salario. Dicevamo della base sociale, delle classi, che possiamo così suddividere: 1) lavoratori produttivi, la classe operaia: i salariati dei settori produttivi; 2) lavoratori improduttivi, la classe media: lavoratori nei settori improduttivi, impiegati nel settore privato e pubblico a cui aggiungiamo i liberi professionisti; 3) lavoratori autonomi: lavoratori indipendenti in proprio e coadiuvanti dei settori produttivi. Nel 2003 i lavoratori produttivi erano 7.506.000, quelli improduttivi 10.277.000 e quelli autonomi 4.272.000. A questi devono essere aggiunti 2.096.000 disoccupati, 14.974.000 non lavoratori dai 15 ai 64 anni e 10.083.000 non lavoratori sopra i 64 anni (1). Ora: tendenzialmente per la classe operaia, al fine di avere un minimo di sicurezza per il futuro, si tratta del peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita, in cambio dell’estensione del lavoro flessibile e della precarietà a tempo indeterminato. E questo vale in parte anche per i lavoratori autonomi. Per le classi medie, anch’esse colpite dalla crisi, la tendenza sembra ormai essere una lenta ma progressiva perdita di potere d’acquisto, e con esso di status sociale. Da questa breve analisi, seppur condotta ad un alto livello di astrazione, deduciamo che la vera base sociale delle future politiche borghesi sono una larga parte di lavoratori improduttivi e i non lavoratori, soprattutto i pensionati, legati tutti, per necessità, alle politiche pubbliche. È il blocco sociale della rendita. Le politiche “centriste” e demagogiche dei partiti di centro-sinistra come quelle di centro-destra non sono così l’indice di una società di ceto medio, ma al contrario di una società che si sta polarizzando: ricchezza per pochi e impoverimento per molti. Non sono l’indice di una società che vede l’estinguersi della classe operaia, ma l’estendersi della crisi di ciclo del capitalismo: società che, nell’approfondirsi della crisi, toglie rappresentanza a quelle classi che sono chiamate a fronteggiarla coi loro sacrifici. Le coalizioni partitiche si adeguano, accapigliandosi solo per questioni di potere, evidenziando come sia il capitalismo a dettare gli obiettivi da perseguire, lasciando loro solo l’incombenza di trovare la sintesi politica più adatta al loro conseguimento. A meno del risveglio dei lavoratori che imporrà alla borghesia altre sintesi, e forse a noi la possibilità di diffondere qualche tesi.
mrBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2006
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