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Home ›L'economia mondiale nel tunnel della crisi
Neppure il passaggio dalla new economy a quella del furto e della guerra è una via di uscita.
Anche le speranze, in verità flebili, che nel secondo semestre di quest'anno la stagnazione economica che dal 2001 ha investito gli Stati Uniti e da lì si è propagata al resto del mondo, cedesse il posto anche solo a una modesta ripresa, sono risultate vane.
Nel mese di aprile, negli stati Uniti, la produzione industriale ha subito un calo dello 0,5% rispetto a marzo e dello 0,4% rispetto all'aprile dell'anno precedente. Il grado di utilizzo degli impianti è sceso a quota 74,4 per l'intera industria e al 72,5% per il settore manifatturiero. Nel 2000, quando toccò il suo picco massimo, aveva raggiunto quota 85,1 nell'intera industria e quota 85,6 nel settore manifatturiero. Complessivamente, nel primo trimestre dell'anno sono state avviate 412.968 procedure di fallimento mentre nell'intero anno fiscale, chiuso il 31 marzo u. s., il totale dei fallimenti ha raggiunto il record di 1,61 milioni con una crescita del 7,1 per cento rispetto all'anno precedente. "La capacità produttiva utilizzata è dunque inferiore di 13 punti rispetto al 2000 e di 7 punti percentuali rispetto alla media degli ultimi trenta anni" (Galapagos, Stati Uniti, produzione in caduta, Il Manifesto del 16 maggio 2003).
La situazione è talmente drammatica che ora a prospettare la possibilità che il prolungarsi della stagnazione possa sfociare in una vera e proprio depressione non sono più solo i critici neokenesiani del neoliberismo o, coloro, come noi, che da tempo parlano di crisi del ciclo di accumulazione capitalistica come conseguenza della inesorabile tendenza alla diminuzione del saggio medio del profitto; ma anche - come ci informa E. Scalari su La repubblica del 18/05/2003 - "I centri di analisi economica più seri e le stesse istituzioni internazionali (FMI, Federal Reserve, Bce, Eurostat), avvertono che la stagnazione in corso dal 2001 non più definirsi congiunturale. A questo punto l'uso della parola congiunturale è improprio e la maggior parte degli analisti concorda nel definire la crisi come strutturale. Qualcosa di molto serio e di molto preoccupante si è rotto nel meccanismo di sviluppo capitalistico, sia dal lato dell'offerta sia da quello della domanda."
Parole pesantissime se si pensa che non molto tempo fa, questi stessi istituiti e analisti non facevano altro che celebrare la fine dell'andamento ciclico dell'economia.
Secondo gli economisti borghesi, la cosiddetta globalizzazione aveva consentito di superare una volta per tutte le contraddizioni insite nel processo di accumulazione del capitale. Nelle loro aspettative, la deregolamentazione dei mercati finanziari e della forza-lavoro avrebbe dovuto favorire una riallocazione degli investimenti tale da determinare un allargamento della base produttiva su scala planetaria e con essa della massa del plusvalore necessaria per compensare la rovinosa caduta del saggio medio del profitto manifestatasi già agli inizi dei primi anni Settanta.
Per un certo periodo di tempo è sembrato che la ricetta funzionasse davvero, ma si trattava di un colossale abbaglio perché in realtà la liberalizzazione più che favorire uno sviluppo sostenuto dell'economia mondiale, da un lato, ha spalancato le porte a una gigantesca crescita dell'attività finanziaria e, mediante essa, all'appropriazione parassitaria da parte dei capitali più grandi di enormi masse di plusvalore e, dall'altro, a una costante svalutazione del valore della forza-lavoro. In conseguenza di ciò, un fiume di denaro si è riversato a cascata nei portafogli dei capitalisti, dai più grandi ai più piccoli, soprattutto quelli delle metropoli Usa, Giappone ed Europa.
Agli occhi dei teorici del neoliberismo, e di non pochi economisti che pure dicono di richiamarsi al marxismo, è sembrato davvero che tutto quell'oro che pioveva fosse il frutto di un mutamento epocale, di un nuovo modo di generare ricchezza. Vi hanno creduto fino al punto di immaginare l'esistenza di una mano invisibile che spontaneamente tutto razionalizzava a favore di una crescita costante dell'economia mondiale. In realtà, la mano invisibile stava semplicemente preparando quella miscela esplosiva che oggi tutti temono possa da un momento all'altro esplodere e scaraventare l'economia mondiale in una delle più terribili e devastanti crisi che abbia conosciuto il capitalismo moderno. Infatti, l'oro che pioveva su Wall Street e sulle maggiori borse del mondo, provenendo in gran parte da attività parassitarie, non solo non favoriva l'espansione della base produttiva su scala mondiale, ma, polarizzando la ricchezza, oltre che nelle aree economicamente più forti, nelle mani dei più ricchi, ha determinato il declino ulteriore della base produttiva proprio della potenza capitalistica che più beneficiava di questo nuovo Bengodi, gli Usa.
Sembrava davvero che fosse riuscita la quadratura del cerchio: gli Usa stampavano i dollari necessari per far girare la baracca, gli europei e i giapponesi incrementavano le loro esportazioni verso gli Usa e verso i cosiddetti paesi emergenti che avevano bisogno di beni strumentali e tecnologie per la produzione di quelle merci la cui esportazione consentiva di pagare gli interessi sui prestiti in dollari contratti per finanziare le loro importazioni. Insomma: un vero miracolo, solo che a compierlo non era la mano invisibile ma il proletariato di questi paesi sottoposti al più brutale sfruttamento e quello delle stesse metropoli capitalistiche a cui è stata imposta una progressiva decurtazione dei salari. Ma i miracoli sono come i miraggi e prima o poi ineluttabilmente svaniscono.
Nel volgere di un decennio Gli Usa stessi hanno subito una profonda metamorfosi. Potendo finanziarle, immettendo dollari senza alcuna copertura sui mercati internazionali, essi hanno trovato più conveniente importare dall'estero gran parte dei prodotti industriali di cui avevano bisogno e così da maggior paese esportatore sono diventati i maggiori importatori. Oggi il totale delle loro importazioni supera del 45 per cento quello delle esportazioni e da paese creditore sono diventati un paese debitore che necessita di circa due miliardi di dollari al giorno per ogni giorno lavorativo per far fronte a un deficit corrente di 500 miliardi di dollari.
Ma quel che è peggio è che la facilità di finanziamento delle importazioni ha causato un forte declino del loro apparato produttivo e la distruzione di numerosissimi posti di lavoro solo in parte rimpiazzati dalla creazione di nuovi posti nel settore dei servizi, peraltro quasi tutti creati a margine dei processi di appropriazione e circolazione della rendita finanziaria e perciò di tipo servile e scarsamente retribuiti. Alla lunga, quel che è sembrato un miracolo si è trasformato in un vero cappio al collo che ora rischia di strangolare perfino la maggiore potenza economica del mondo. Per riequilibrare la situazione, gli Usa avrebbero bisogno di incrementare le loro esportazioni ma non possono a causa della scarsa competitività del loro apparato produttivo e/o di rilanciare la domanda interna, ma i disoccupati e i precari non consumano; consumano poco anche gli occupati dell'industria i cui salari sono fermi ai livelli del '72, e la cosiddetta middle class impoverita dal crollo di Wall Street. Non potendo rilanciare esportazioni e consumi interni non resta che svalutare il debito e aumentare la spesa militare visto che il complesso militar-industriale è uno dei pochi che non teme la competizione internazionale. Entrambe le cose implicano però necessariamente l'acquisizione di nuove fonti esterne di plusvalore come, per esempio, il petrolio iracheno. La svalutazione del debito, implicando anche quella del dollaro, se non adeguatamente compensata, rischia infatti di spingere verso l'euro - cosa che in parte sta già accadendo - proprio quel flusso di capitali provenienti dall'estero con cui viene finanziato il debito e la stessa spesa militare.
Per questa ragione probabilmente il petrolio iracheno, consentendo di alleggerire il deficit corrente (gli Usa importano più del 50 per cento del loro fabbisogno petrolifero) e un controllo più efficace del prezzo del petrolio e delle quotazioni del dollaro, darà un certo respiro all'economia statunitense e in qualche misura anche a quella dei paesi strutturalmente dipendenti dalle esportazioni verso gli Usa ma in nessun caso potrà determinare la fuoriuscita dalla crisi. Ben presto, proprio perché la crisi è strutturale e l'appropriazione del petrolio iracheno altro non è che una riproposizione nella forma più violenta ed esasperata di appropriazione parassitaria di plusvalore, le contraddizioni da cui trae origini sono destinate a riproporsi in modo sempre più drammatico. In ogni caso il bel sogno della new economy è definitivamente svanito e ne ha preso il posto l'economia basata sul furto sistematico per mezzo della guerra.
gpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #6
Giugno 2003
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