Medioriente e dintorni nella morsa della guerra: sangue distruzione morte e poi?

Tutti i motivi di conflittualità tra gli Usa e il resto del mondo che si sono posti prima dello scoppio della guerra saranno ben presenti nella fase critica del dopo Saddam. L'imperialismo americano non solo non ha risolto, se non con l'uso unilaterale della forza, i rapporti con l'Europa, la Russia, la Cina e tutto il mondo arabo, regimi alleati compresi, ma li va esasperando ad ogni giorno in più di guerra. Come da programma, alla guerra preventiva si sta sommando la ricostruzione preventiva, il controllo pressoché monopolistico dei contratti petroliferi, non rispettando nemmeno le esigenze dell'alleato inglese. Di quel petrolio tutti i più grandi capitalismi internazionali ne hanno bisogno come il pane. I paesi europei giocano inoltre la partita dell'Euro contro il dollaro, in una sorta di conflitto finanziario che ha come obiettivo la rendita parassitaria petrolifera ma non solo, c'è in ballo la futura egemonia nei mercati monetari internazionali. La Russia nei suoi immani sforzi per usciere dall'antica crisi economica che ha prodotto il crollo dell'Urss, non può arretrare di un metro né sulla questione del petrolio iracheno né su quello caspico. I governi dei paesi arabi che, prima dell'apertura delle ostilità, tremavano all'idea di dover fronteggiare le proprie popolazioni, ora sono alle strette. La piazze si sono riempite di folle inferocite contro l'arroganza americana, i movimenti integralisti riprendono fiato mettendo in discussione gli stessi governi e il proletariato islamico, senza coerenti punti di riferimento di classe, diventa facile preda dei due estremismi borghesi, quello anti imperialista, anti americano ma non anti capitalistico, e quello integralista, reazionario e fascista, che non gli consentono nessuna autonoma manovra politica.

Sullo scenario del fronte bellico le cose sono ancora più complesse. La cecità tattica americana riteneva di liquidare la partita Iraq nello spazio di 72 ore. Il comando militare e il Pentagono, schiavi delle menzogne che essi stessi hanno prodotto, pensavano che una volta messo piede nel sud dell'Iraq, la popolazione sciita li accogliesse come liberatori con tanto di bandierine americane nella mano destra e un ramoscello d'ulivo nella sinistra. Le cose non stanno esattamente andando così. Innanzitutto le popolazioni meridionali non hanno dimenticato come, nella guerra del 92, quando sono insorte contro il regime di Saddam, istigate dagli stessi Stati Uniti, siano state lasciate sole e indifese. Non solo, le armate americane si sono aperte, hanno consentito agli avanzi della Guardia repubblicana di passare oltre e di reprimere nel sangue quella rivolta che loro stessi avevano fomentato. In secondo luogo l'arrogante aggressività americana le ha rese così ostili da imbracciare i fucili, non tanto per difendere Saddam, quanto per ricacciare indietro gli invasori.

A dilatare ulteriormente la già grave situazione, il Comando Usa, preoccupato che le popolazioni sciite possano ricevere aiuti dall'Iran, hanno minacciato il paese degli Ayatollah di punirlo appena conclusa la vertenza Iraq. L'Iran, terza potenza petrolifera dell'area, era già inserito nell'elenco dei paesi canaglia da eliminare ai fini del completo controllo petrolifero, sottraendolo a possibili alleanze con Europa e Russia. Si aprirebbe così un altro fronte bellico con conseguenze catastrofiche per quella popolazione e per quelle confinanti.

A nord, in zona curda, la partita è ancora più complessa. Prima ancora dell'apertura delle ostilità, gli Usa avevano portato a compimento un'alleanza con i due principali partiti curdi iracheni, il Pdk di Rabbani e il Ppk di Talabani con la promessa di una maggiore autonomia nell'ambito di un futuro stato federale. La cosa ha fatto imbestialire il Governo Turco che, non solo ha rifiutato l'uso delle sue basi per una penetrazione americana al nord dell'Iraq, ma lo ha spinto a sfidare il grande alleato minacciando di entrare con le sue truppe all'interno del territorio curdo. Due gli obiettivi: il primo di evitare la nascita di una stato curdo più o meno federale, il secondo di proporre la propria candidatura al controllo e allo sfruttamento del petrolio nella zona di Mosul e Kirkuk. In più il governo di Ankara teme delle ripercussioni tra la sua popolazione curda, che rialzerebbe la testa in una sorta di imitazione nazionalistica dei fratelli iracheni. La bomba curda rischia di scoppiare coinvolgendo la Turchia, l'Iran, tutta la fascia nord dell'Iraq e la Siria, già minacciata dagli Usa per il sospetto di fornire armamenti al governo di Saddam.

Intanto il fronte si allarga anche alla periferia del conflitto. In Israele il governo Sharon, usufruendo di una dose aggiuntiva di impunità, riconquista progressivamente i territori che era stato costretto a concedere ai palestinesi, anche se solo sotto l'ambigua forma della autonomia amministrativa. Dietro la tragedia bellica delle bombe su Bassora e Baghdad, se ne consuma un'altra, quella palestinese, nel quasi assoluto silenzio.

Il mondo islamico ribolle. Non passa giorno che nelle grandi città arabe, da Casablanca al Cairo, da Amman a Tunisi, milioni di manifestanti scendono nelle piazze a stento frenati dalle forze di polizia. È l'odio nei confronti dell'imperialismo americano e la rabbia verso i rispettivi governi responsabili non aver saputo e voluto opporsi con sufficiente determinazione. È la risposta istintiva, non politica alla barbarie del capitalismo, all'imperialismo che produce distruzione e morte, fame e miseria là dove le sue necessità di profitto e di dominio lo conducono. Sono le inderogabili leggi del capitale, dei suoi meccanismi di valorizzazione, che fanno milioni di vittime. In tempi di pace la vittima predestinata è il proletariato qualunque sia il suo ambito nazionale e il suo tasso di sfruttamento. In tempo di guerra è la popolazione e doppiamente il proletariato che ne subiscono le devastanti conseguenze, al fronte o nelle città, per uccidere o per essere uccisi.

Mai come in questa occasione il rifiuto della guerra si è levato alto. Centinaia di milioni di persone nei quattro continenti sono scese in piazza, hanno dato vita a manifestazioni e preso iniziativi di ogni genere. Ma la guerra è partita lo stesso, nessun movimento pacifista, eterogeneo e interclassista la poteva fermare. O scende in campo il proletariato, il mondo degli sfruttati e degli oppressi, di chi rappresenta il motore primo della struttura economica basata sullo sfruttamento, condizione della seconda barbarie sociale, quella della guerra, oppure tutto sarà come prima, eccezion fatta per un numero di morti in più, immolati sull'altare degli interessi imperialistici, e per una diversa ridistribuzione inter imperialistica delle zone a valenza economica e strategica.

Fermare la guerra significherebbe che il proletariato americano facesse i conti con l'amministrazione Bush, che quello iracheno, e più in generale quello medio orientale, li facesse con i rispettivi regimi, e che il proletariato europeo si incamminasse nella medesima direzione, trasformando i movimenti pacifisti in istanze di lotta di classe, anti capitalistica, anti imperialistica, per una alternativa economica e sociale che non abbia come presupposto lo sfruttamento nei periodi di pace, morte distruzione e barbarie nei periodi di guerra. Improbabile, utopistico? No la ripresa della lotta di classe e la rivoluzione proletaria sono la sola alternativa a questo stato di cose e i comunisti a questo devono lavorare anche se le prospettive immediate sembrano andare dalla parte opposta. Altrimenti la barbarie del capitalismo non farà altro che inanellare altri episodi di guerra e di morte, spacciandolo, come succede, per necessari atti di esportazione della democrazia, lotte contro le dittature e menzogne similari.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.