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Home ›Gli Usa vicini alla vittoria e... al petrolio dell'Iraq - Ma potrebbe essere una vittoria di Pirro
Quando questo numero di BC uscirà, molto probabilmente, dati i rapporti di forza fra gli eserciti in campo, la seconda guerra del Golfo, seppure con qualche effetto collaterale in più rispetto al previsto, sarà finita. Il regime di Saddam Hussein si sarò dissolto e gli Usa avranno imposto il loro protettorato militare sull'Iraq. Insomma, è molta probabile che tutto sarà andato - come direbbe Rumsfeld - secondo i piani, con la vittoria degli Usa.
Una grande vittoria!, dirà Bush, gonfiando il petto come un tacchino d'allevamento. D'altra parte, a un petroliere presidente della potenza che poggia il fulcro del suo predominio sul nesso fra il prezzo del petrolio e la sua moneta, il dollaro, come potrebbe non apparire una grande vittoria la conquista di un paese che forse conserva nel suo sottosuolo le maggiori riserve petrolifere del mondo e dai cui pozzi già oggi è possibile estrarre petrolio per oltre 25 miliardi di dollari all'anno? Certo, per raggiungere questo obbiettivo - come fanno notare molti dei loro corifei, gli Usa alla fine avranno dovuto spendere non meno di cento miliardi di dollari, ma è anche vero che ai 25 miliardi attesi bisogna aggiungere tutti quelli che hanno già incassato le grandi compagnie petrolifere statunitensi - di cui, è bene ricordarlo, cinque delle prime sette sono di proprietà dello stato - a causa dell'aumento del prezzo del petrolio che si è registrato a partire dallo scorso autunno per effetto dell'approssimarsi e dello scoppio della guerra. Eppure, proprio per questa ragione, proprio perché la guerra contro l'Iraq è stata scatenata solo per il petrolio, la vittoria conseguita appare molto simile a una vittoria di Pirro e sicuramente una conquista meno solida di quanto comunemente si ritiene.
A tutt'oggi nel mondo, per il fatto che il dollaro è il più diffuso mezzo di pagamento internazionale, circolano circa tre trilioni di dollari e la maggior parte di essi, visto che i prezzi del petrolio sono denominati in dollari, è utilizzata per le transazioni petrolifere. Inoltre, proprio perché il mercato del petrolio, e gran parte del mercato internazionale delle materie prime, è denominato in dollari, anche i due terzi delle riserve valutarie delle banche centrali, necessarie per far fronte agli scambi internazionali, sono denominate in dollari. In poche parole, buona parte di quei tre trilioni di dollari sono per gli Usa che li emettono moneta "virtuale", capitale fittizio allo stato puro e perciò fonte di una immensa rendita finanziaria con cui essi fronteggiano i loro deficit di bilancio, le loro spese militari, ma soprattutto il deficit della loro bilancia commerciale. Infatti, grazie alla possibilità di potere emettere una così gran massa di moneta senza una corrispondente produzione di merci gli Usa, nel corso degli ultimi trenta anni, hanno trovato sempre più conveniente importare dall'estero molte delle merci di cui avevano bisogno piuttosto che produrle in casa propria. Oggi essi sono un paese che dipende strutturalmente dalle importazioni. Al contrario, il Giappone e molti paesi europei a cominciare dalla Germania, hanno invece accresciuto le loro potenzialità di esportatori netti. Perfino la potente armata statunitense dipende dalle importazioni. Per esempio, dall'industria alimentare francese proviene buona parte delle razioni che vengono distribuite ai soldati al fronte e dal Giappone i sistemi di punteria elettronica delle batterie dei missili anti-missile Patriot e un tipo di pistola in uso ai marines dall'Italia. Ma quel che più conta è che anche la gran parte dei paesi produttori di petrolio, pur continuando a incamerare dollari dalla sua vendita, deve poi rivolgersi altrove per acquistare le merci di cui ha bisogno. Il 45 per cento del petrolio del Medioriente viene importato e pagato in dollari dalla Ue, ma l'Ue è anche il più importante partner commerciale di questa area. Lo stesso vale per la Russia, che attualmente è il primo produttore di petrolio del mondo. Essa, a causa del rialzo del prezzo del petrolio, si ritrova inondata di dollari ma il suo commercio estero si svolge quasi per intero con l'Europa tanto che recentemente l'interscambio fra le due aree ha raggiunto i 50 bilioni di dollari, il valore più alto di tutti i tempi.
Per i paesi produttori, quotare in dollari le esportazioni di petrolio, è stato per molto tempo molto vantaggioso non dovendo sostenere costi di cambio e potendo realizzare, investendo sui mercati finanziari statunitensi, enormi profitti; ma con la nascita dell'euro e con l'esaurirsi della fase rialzista di Wall Street il quadro delle convenienze è completamente mutato. Che senso ha, si sono chiesti in tanti, vendere il petrolio in dollari agli europei se poi questi dollari bisogna cambiarli in euro, sopportandone i relativi costi di cambio, perché è agli europei che bisogna rivolgersi per acquistare la gran parte delle importazioni di cui si ha bisogno?
Poiché la risposta è la logica conseguenza di calcoli abbastanza semplici, non è stato difficile per esempio per l'Iraq, capire che quotando in euro e non più in dollari le proprie esportazioni di petrolio si riusciva ad importare, nell'ambito del piano oil for food gestito dall'Onu, quantità maggiori di merci. Certamente facendo ciò, il regime di Saddam Hussein ha accelerato i tempi della guerra e la sua distruzione, ma non perciò la fondatezza di quel calcolo viene meno e altri non continueranno a farlo.
Lo scorso anno la Russia ha avviato negoziati con la Germania per denominare in euro le sue future vendite di petrolio. La Cina, a sua volta, ha già annunciato che sta attendendo il momento più favorevole per portare il livello delle riserve valutarie della sua banca centrale, attualmente denominate in euro solo in misura del cinque per cento, al 20 per cento, cioè a quanto ammonta, sul totale dei suoi scambi internazionali, la percentuale dei suo scambi con l'Ue.
E su questa stessa linea hanno già da tempo annunciato che intendono muoversi anche la Siria, l'Iran, la Libia e perfino l'Arabia Saudita. Certo la minaccia militare degli Usa potrà anche ritardare questa decisione, ma per quanto ancora?
Ha fatto scalpore che paesi poveri e facilmente ricattabili come la Guinea, l'Angola e il Camerun abbiano in qualche modo opposto resistenza al ricatto statunitense mirato a ottenere nel consiglio di sicurezza dell'Onu, in cambio della concessione di prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, il loro voto favorevole all'attacco all'Iraq. Ma il fatto è che già da qualche tempo la quota maggiore dei diritti di prelievo su cui si basa il meccanismo della concessione dei prestiti da parte del FMI e della Banca Mondiale non è più denominata in dollari.È da tempo che ormai i paesi dell'Ue non versano più le loro quote, che complessivamente sono la maggioranza, nelle loro rispettive vecchie monete nazionali, ma nella nuova moneta comune, l'euro. In pratica il ricatto statunitense si basava per molti versi su un bluff in quanto veniva minacciato l'uso di armi il cui possesso è in gran parte proprio nelle mani di coloro, Germania e Francia, che a quella risoluzione si opponevano.La cosa evidentemente non è sfuggita ai paesi in questione così come non deve essere sfuggita alla Turchia che non saranno sufficienti i pozzi petroliferi, che spera di accaparrarsi nell'Iraq del nord, per uscire dalla profondissima crisi economica in cui versa, senza l'Europa.
Sono nodi questi che la vittoria contro l'Iraq potrà ritardare, ma non impedire che prima o poi vengano al pettine. Infatti, quel privilegio finanziario di cui ha goduto e gode il dollaro se da un lato ha fatto sì che gli Usa diventassero la più grande potenza finanziaria e militare del mondo e godere del più lungo periodo di crescita della loro storia, dall'altro ne ha indebolito irrimediabilmente il loro apparato economico-produttivo.
La vittoria contro l'Iraq rafforza proprio questo meccanismo infernale ed è per questo che assomiglia più alla prima battaglia di una guerra ancora da combattere che a una guerra vinta definitivamente. Se poi si tiene conto che questa guerra per vincerla implica necessariamente la distruzione o il ridimensionamento dell'euro e il controllo dell'intera rete del mercato del petrolio ecco delinearsi nettamente uno scenario in cui tutto può ancora accadere, perfino che la vittoria contro l'Iraq passi alla storia come una nuova vittoria di Pirro.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #4
Aprile 2003
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