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La locomotiva americana non tira più e trascina nella crisi tutta l'economia mondiale
Durante la sbornia finanziaria di fine millennio, quando gli indici delle più importanti borse mondiali sono schizzati all'insù trascinati dalle performance delle azioni tecnologiche, i più accesi sostenitori della nuova economia si erano convinti che il capitalismo non fosse più soggetto, come nel passato, ai cicli economici. Per la stragrande maggioranza degli economisti borghesi, grazie agli straordinari aumenti della produttività e alla creazione di ricchezza tramite le attività finanziarie, il capitalismo poteva svilupparsi ininterrottamente e garantire a tutti una vita migliore. Nell'era della nuova economia e della globalizzazione niente più crisi o recessioni economiche, ma sviluppo e benessere anche per quei paesi finora sottosviluppati. Come sappiamo, puntualmente la realtà non ha tardato molto nello smentire le false teorie borghesi sulla fine dei cicli economici e agli inizi dello scorso anno le piazze finanziarie mondiali hanno cominciato a vacillare sotto la pressione di pesantissime perdite dei propri indici. Il miracolo della nuova economia e della crescita ininterrotta è stato di breve durata, giusto il tempo necessario affinché le contraddizioni del modo di produzione capitalistiche potessero produrre i propri effetti su scala internazionale.
Per quasi un anno la caduta degli indici azionari delle varie borse mondiali è stata letta come una conseguenza salutare degli eccessi rialzisti del precedente periodo. Per gli economisti borghesi la caduta del Nasdaq, l'indice statunitense delle azioni tecnologiche, e delle altre borse internazionali non era dovuta ad una crisi dell'economia reale ma semplicemente ad una correzione fisiologica della precedente sbornia rialzista. Il perdurare della crisi finanziaria internazionale, il cui epicentro va ricercato ancora una volta negli Stati Uniti, ha evidenziato come la caduta delle borse non possa essere più considerata come un fenomeno transitorio o addirittura salutare per l'economia mondiale, ma sia il segnale di una crisi economica di vasta portata.
Per evitare che il rallentamento della locomotiva americana si trasformasse immediatamente in una grave recessione economica, il presidente della Federal Reserve Greenspan ha abbassato nel corso del 2001 per ben sette volte il tasso di sconto per dare così ossigeno all'asfittica economia statunitense. In soli otto mesi il tasso di sconto americano è passato dal 6,5% al 3,5%, un livello quasi identico al tasso d'inflazione. Nonostante il calo repentino dei tassi d'interesse, che in passato avrebbe permesso una risalita degli indici di borsa ed un rilancio degli investimenti, l'economia statunitense è avviata verso la più grave recessione di questo secondo dopoguerra. Gli ultimi dati economici confermano il trend recessivo degli Stati Uniti: nell'ultimo trimestre la crescita del prodotto interno lordo è stata soltanto dello 0,2%, mentre la produzione industriale è calata per il secondo trimestre consecutivo dello 0,1%, dopo esser caduta dello 0,9% il trimestre precedente. Anche il fronte dei consumi, quello che finora ha permesso agli Stati Uniti di allungare la fase espansiva della propria economia, comincia a mostrare i primi segni evidenti di crisi. Dopo oltre un decennio di crescita ininterrotta i consumi degli americani non hanno subito nell'ultimo trimestre una crescita significativa; un risultato che per le caratteristiche dell'economia statunitense, fortemente orientata verso i consumi, può essere letto come l'inizio della recessione. Se fino allo scorso anno le plusvalenze di borsa hanno alimentato i consumi degli americani, con la caduta degli indici azionari milioni di piccoli risparmiatori non solo non possono più alimentare la domanda interna ma si trovano di fronte una montagna di debiti praticamente inesigibili. Quando il mercato azionario era in ascesa una fascia consistente di americani, considerati i tassi d'interesse e il tasso d'inflazione, preferiva contrarre debiti per investire tali capitali nelle attività finanziarie; in pochi mesi con i guadagni di borsa non solo si coprivano i debiti contratti ma si alimentavano i consumi interni. Se aggiungiamo che in questo periodo il dollaro si è notevolmente apprezzato rispetto alle altre monete internazionali possiamo immaginare gli effetti della leva finanziaria sull'intera economia americana.
Lo scoppio della bolla speculativa lascia in eredità una montagna di debiti sull'intero sistema americano (vedi l'articolo sul debito americano apparso sull'ultimo numero di Prometeo). I soli mutui ipotecari ed i debiti contratti con le carte di credito rappresentano quasi il 15% di tutto il reddito disponibile, un livello d'indebitamento che non si registrava da 20 anni. La gravità della situazione è tale che il presidente Bush nel tentativo di rilanciare i consumi ha approntato un piano di riduzione delle tasse per una cifra di 38 miliardi di dollari, ma vista la montagna di debiti contratti dalle famiglie americani i tagli alle tasse difficilmente si tradurranno in consumi, serviranno soltanto ad onorare i rispettivi debiti.
Se la situazione debitoria degli Stati Uniti non ha determinato una recessione di proporzioni maggiori ciò è dovuto alla tenuta del mercato immobiliare. Mentre nell'esperienza della crisi giapponese il crollo dell'indice Nikkey si è accompagnata al crollo dei valori degli immobili, scaraventando il Giappone in una crisi dalla quale non riesce a tirarsi fuori da oltre un decennio, il mercato immobiliare statunitense finora ha permesso al patrimonio degli americani di non svalutarsi e garantire in tal modo i debiti contratti. Ma è altrettanto evidente che se la crisi finanziaria della borsa e il calo dei consumi dovessero continuare nei prossimi mesi anche il mercato immobiliare sarebbe travolto da una pesantissima svalutazione con la conseguenza di accentuare gli effetti della recessione.
La crisi economica comincia a far sentire i propri effetti sulle fasce sociali più deboli. Precarietà del lavoro, disoccupazione crescente, emarginazione sociale e continui tagli al quel che rimane del Welfare sono le conseguenze di una crisi di ciclo lunga un trentennio e che questa recessione rischia ulteriormente di aggravare le condizioni di milioni di proletari. La vicenda della sanità americana è lo specchio fedele di una realtà nella quale il proletariato subisce quotidianamente gli attacchi della borghesia, attacchi che diventano sempre più pesanti con l'aggravarsi della crisi economica. Proprio in questi giorni nello stato della California, il più ricco d'America e che da solo rappresenta la sesta potenza mondiale, 40 mila dipendenti e pensionati pubblici che nei mesi scorsi si erano trasferiti dalla città di San Francisco in piccoli paesi di provincia hanno ricevuto dalla propria assicurazione una lettera di benservito. Il trasferimento in provincia di queste persone ha fatto aumentare enormemente i costi del servizio sanitario, con la conseguenza che le assicurazioni collettive non riescono più a garantire la copertura di tali costi. Per questi proletari si aprono due prospettive: o sono in grado di pagarsi un'assicurazione individuale (il costo medio per una famiglia di quattro persone è di quasi un milione di lire italiane) oppure, ed è la prospettiva più plausibile, rinunciano ad avere un servizio sanitario e sperando di non aver mai bisogno di cure mediche. Impossibilitati a vivere in una grande città con una pensione pubblica, centinaia di migliaia di statunitensi sono stati letteralmente scaraventati nei piccoli centri di provincia, dove il costo della vita è mediamente più basso, ma tutto questo ha prodotto la conseguenza di non poter avere più l'assistenza sanitaria collettiva. Il capitalismo più sviluppato al mondo non è più in grado di garantire un'assistenza sanitaria al proletariato, e con l'aggravarsi della crisi economica centinaia di migliaia di statunitensi nei prossimi mesi andranno ad ingrossare l'esercito di 50 milioni di poveri che vivono ai margini della società.
plBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #8
Agosto-settembre 2001
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