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Home ›I primi cento giorni di Bush jr. - Sotto i colpi della crisi la politica Usa cambia rotta
I primi cento giorni della presidenza di G. Bush non sono certo passati nel segno della continuità. A cominciare da quella estera, il nuovo presidente, quasi fosse spinto da una sorta di furia distruttiva, ha rovesciato tutta la politica del suo predecessore e lo ha fatto in maniera così irruenta da lasciare perplessi molti osservatori. Alcuni interventi, come per esempio, la denuncia degli accordi di Kyoto, l'espulsione dei diplomatici russi o la gestione della crisi con la Cina sono stati fatti con tale rozzezza ed arroganza da far pensare che fossero più il frutto dell'inesperienza che non il segno di una reale e radicale svolta politica. Anche nei bilanci che si leggono sulla stampa borghese sia italiana sia estera su questi primi cento giorni, prevale l'opinione che siamo di fronte a una sorta di ritorno al passato, di un gruppo di miliardari ultraconservatori interessati esclusivamente ai bilanci delle loro società o delle logge di appartenenza. Scrive, per esempio, Marco D'Eramo su Il Manifesto del 29 aprile scorso: " Certo è che se i democratici non si sbrigano a vincere le elezioni di mid term nel 2002, non ci sarà più neppure uno straccio di sindacato negli Usa. L'unica speranza sta proprio nella natura di questo personale politico: sono zombi, fantasmi del passato, ancora immersi nel mondo di venti anni, fa, senza nessun contatto con la realtà. Reaganiani che stanno tornando al futuro". Qui, probabilmente, l'intenzione sottintesa di paragonare Bush a Berlusconi per far breccia nell'area dell'astensione di sinistra, ha spinto a calcare un po' la mano; ma indubbiamente vi è anche espressa un'opinione abbastanza diffusa nei mass media e fra gli opinionisti delle più svariate tendenze.
Ora, questo ingrediente certamente non manca e non manca neppure la rozzezza dell'uomo e del suo staff di ministri e consiglieri; ma ricondurre questa svolta della politica statunitense esclusivamente a ciò è fortemente fuorviante; infatti è completamente assente in questa analisi il fatto che da almeno un anno a questa parte la crisi del ciclo di accumulazione capitalistica, apertasi nei primi anni Settanta, è entrata in una nuova fase.
Al di là dei dati economici strettamente congiunturali, peraltro a loro volta per nulla confortanti, l'economia statunitense deve di nuovo fronteggiare una crisi di vastissime dimensioni e per di più in un contesto internazionale profondamente modificato rispetto agli anni Ottanta, quando fu possibile, grazie soprattutto alla deregolamentazione dei mercati finanziari e alla loro globa-lizzazione, internazionalizzare la crisi e scaricarne i costi sul mondo intero. Un dato su tutti può chiarire il labirinto in cui si trovano gli Usa. Nel primo trimestre di quest'anno il Pil è cresciuto del due per cento, in altre parole di oltre un punto in più rispetto alle previsioni anche le più rosee. Il dato, come abbiamo già in altre occasioni sottolineato, è certamente falsato dall'uso di un modello statistico (deflattore edonistico) molto discutibile che conteggia nella crescita del Pil anche gli incrementi di potenza delle nuove generazioni di computer che via via vedono la luce, ma nondimeno è fortemente contraddittorio con il fatto che negli ultimi tre mesi siano andati perduti ben 400 mila posti di lavoro, che gli investimenti industriali siano diminuiti di ben l'11 per cento, che le esportazioni siano letteralmente crollate e le importazioni notevolmente diminuite, cioè con il fatto che tutti i parametri macroeconomici relativi all'attività produttiva vera e propria siano in forte flessione. Il mistero si spiega con il fatto che una gran parte dei consumi statunitensi è indipendente dall'andamento della cosiddetta economia reale reggendosi esclusivamente sul debito finanziato dall'estero. La riduzione dei tassi di interesse operata da Greenspan negli ultimi tempi e la crescita dei prezzi delle case, dovuto al crollo della borsa, che i lavoratori offrono in garanzia per ottenere dalle banche prestiti, hanno spinto questi ultimi, nella speranza che la crisi sia passeggera, a mantenere i loro livelli di consumo aumentando il loro indebitamento che era mediamente già pari al 100 per cento dei loro stipendi e salari. È evidente, quindi, che il tutto si regge su un fragilissimo equilibrio basato sul livello dei tassi di interesse e sul flusso dei capitali provenienti dall'estero necessario per finanziare questo montagna di debiti. Finora gli Usa, forti del privilegio di essere il paese che emette moneta per tutto il mondo e del controllo esercitato sul mercato del petrolio, sono riusciti, internazionalizzando la loro crisi e scaricando sul mondo intero i suoi costi, a far quadrare il cerchio. La conseguenza più vistosa di questa quadratura è stata, oltre all'impoverimento crescente di enormi masse di uomini e alla riduzione dei salari reali su scala mondiale, sicuramente anche la nascita dell'Euro. Lo stesso crollo dell'ex impero sovietico è stato a un tempo causa e conseguenza del successo di questa politica.
L'euro che fra pochi mesi comincerà a circolare anche fisicamente sui mercati internazionali; i molti paesi dell'ex blocco sovietico, a cominciare da stessa Russia, che sono sempre più attratti dalla UE; la crisi del Giappone e il suo avvicinamento alla Cina, sono fantasmi che a Washington tolgono il sonno a parecchie persone. Ora, è vero che non è possibile prendere a cannonate i fantasmi, ma qualcosa per impedire che prendano effettivamente corpo si può sempre fare.
Ecco, quindi, il FMI paventare l'apocalisse (fino a pochi mesi fa prevedeva marce trionfali per tutti!) se la BCE non abbassa il tasso di sconto, che è un modo come un altro per dire che l'euro può anche vedere la luce, ma la politica monetaria internazionale deve restare una prerogativa assoluta della Federal Reserve. Ed ecco anche che la Cina, finora in chiave anti-russa considerata un fidato alleato, diviene, insieme alla Corea del Nord, all'Iraq e a Roccacannuccia, il potenziale nemico numero dell'intero occidente che perciò dovrebbe essere ben lieto di dare il proprio appoggio e i propri quattrini per la costruzione dello scudo spaziale quando in realtà è del tutto evidente che questo rafforzerebbe solo lo strapotere militare degli Usa e assicurerebbe commesse miliardarie alla loro potente industria bellica e aerospaziale. Ci fosse la possibilità di mettere in piedi, in funzione anticiclica, una nuova guerra tipo quella del Golfo, le cose sarebbero molto più semplici, ma allo stato, a meno di non voler scatenare il finimondo la cosa appare piuttosto difficile anche se a volte con la buona volontà si possono spostare anche le montagne. Di sicuro c'è che, Bush o non Bush, le tensioni internazionali sono destinate a intensificarsi e la crisi sempre più ingovernabile se non accrescendo disoccupazione, miseria ed emarginazione.
gpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #5
Maggio 2001
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