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Home ›Il ruotino di scorta della controrivoluzione: il reddito di cittadinanza
È uno dei nostri assunti fondamentali che il riformismo non è una via diversa, più tranquilla e meno traumatica di quella rivoluzionaria, per arrivare al medesimo traguardo ossia il superamento della società capitalistica, ma un nemico mortale della classe operaia, perché, mentre la stordisce con illusorie prospettive riformatrici, rafforza il dominio della borghesia sul proletariato intero. Insomma, nonostante il suo linguaggio abbia attinto e continui ad attingere (sempre più sporadicamente, a dire il vero) nel vocabolario classista, il riformismo, in quanto corrente politica e pratica sociale, sta totalmente dall'altra parte della barricata, dalla parte di coloro che vogliono perpetuare, addolcendoli, i rapporti di sfruttamento e oppressione che costituiscono l'anatomia di questa società.
Ma se la giovinezza del capitalismo, su quel terreno politico, faceva emergere personalità di un certo rilievo, oggi anche il pensiero riformista segue la parabola discendente del modo di produzione capitalistico, producendo "teorici" che si conformano alla bassezza standard del personale borghese medio.
C'è, inoltre, un altro elemento che concorre in misura notevole alla più che mediocre produzione politico-intellettuale degli odierni riformatori ossia il disfacimento dello stalinismo, i cui cascami velenosi si intrecciano in modo inestricabile con le varie espressioni di quella che, per comodità, chiamiamo la nuova socialdemocrazia. Così, mentre la crisi storica di accumulazione del capitale ha praticamente interrotto il tubo di alimentazione delle riforme - poiché queste possono concretizzarsi esclusivamente nelle epoche di espansione e, comunque, sempre in funzione delle logiche capitalistiche - facendo mancare il terreno sotto i piedi ai riformisti, costoro, invece di riconoscere realisticamente l'impossibilità del loro progetto politico, si lanciano volontaristicamente nell'elaborazione di proposte una più squinternata dell'altra. A dir la verità, viene persino da chiedersi se le "geniali" pensate di cui parleremo non siano state partorite in uno stato di permanente ubriachezza (molesta) o pescate in una delle numerose, idiote trasmissioni di oroscopi e tarocchi: tanto, la loro attendibilità è la stessa. Stiamo parlando, ovviamente, del reddito di cittadinanza o, secondo l'ultimo modello, reddito di esistenza, il perno teorico-politico di quelli che, un tempo, si chiamavano gli "invisibili" (il cui simbolo è la tuta bianca), ma che ora, dopo le numerose apparizioni televisive e l'assidua frequentazione di pezzi più o meno grossi dell'apparato statale, specialmente a livello locale, hanno acquisito una certa notorietà.
In che cosa consiste questo reddito di cittadinanza? Nella distribuzione a ogni persona, indipendentemente dalla condizione sociale e lavorativa, di un milione di lire al mese (A. Fumagalli, il Manifesto, 9-2-01); in questo modo sarebbe garantita a chiunque una base minima di sopravvivenza e ciò attenuerebbe di molto o addirittura eliminerebbe "l'esclusione sociale", la precarietà indotte dalle trasformazioni avvenute nell'organizzazione del lavoro. La sguaiata sgangheratezza di una simile proposta dovrebbe apparire evidente a qualunque persona dotata di buon senso; invece, esattamente come gli oroscopi di cui sopra, ha a disposizione canali di comunicazione tutt'altro che disprezzabili (giornali e radio a diffusione nazionale, internet) e quindi un suo pubblico, formato, in gran parte, da una gioventù che, senza essere in genere proletaria, nutre un'istintiva ribellione verso il mondo del capitale e che individualmente potrebbe evolvere verso posizioni autenticamente di classe. Se non fosse per questo, non varrebbe certamente la pena di occuparci di quella paccottiglia che, solo per farla breve, chiamiamo teorica. Infatti, nella "teoria" in tuta bianca non c'è un'affermazione che sia dimostrata, ma tutto viene semplicemente proclamato e ciò deve bastare perché sia anche vero. Se negli anni '70 i padri delle Tute bianche negavano l'oggettività della legge del valore - il fatto cioè che in questa società ogni ricchezza è prodotta dallo sfruttamento della classe operaia e che il profitto nasce dal lavoro non pagato degli operai - riducendola a una semplice opinione ("il punto di vista operaio"), oggi non può stupire se le Tute bianche ritengono che "nella nostra epoca post-fordista il fatto stesso di esistere significa essere produttivi" e che "ogni atto diventa produzione di ricchezza" (il Manifesto, 11-2). Assistere a esclusive sfilate di moda e sgobbare in fonderia, curvare la schiena sui campi di pomodoro e prendere il sole a Porto Cervo, per i nostri ineffabili biancovestiti sarebbe la stessa cosa: ma allora, se crediamo a queste cose, perché non crediamo anche al miliardario presidente-operaio? Anzi, diamo anche a lui il milione al mese che gli spetta (sempre che non si offenda...) visto che il povero cavaliere, per il solo fatto di esistere, è uno sfruttato come il più angariato lavoratore interinale... È il trionfo dell'interclassismo: le classi, dagli interessi opposti e inconciliabili, scompaiono, scompare lo sfruttamento reale, concreto, di chi lavora (quando lavora) in cambio di un salario/stipendio sempre più magro in condizioni sempre più dure. E hanno il coraggio di chiamarsi antagonisti: antagonisti a chi? Alla classe operaia, al proletariato, verso il quale emerge ancora una volta il disprezzo e la spocchiosa superiorità tipiche della classe da cui provengono, cioè la piccola borghesia. Sono almeno trent'anni che i suoi rampolli "ribelli" si servono dei proletari per cercare di mantenere uno status sociale che l'evoluzione del capitalismo mette continuamente in forse: sia come trampolino di lancio per brillanti carriere nei gradini alti della società, sia come - è il caso del reddito di cittadinanza - possibile fonte diretta di finanziamento delle loro cooperative, botteghe eque e solidali, informatiche e chi più ne ha più ne metta. Cos'altro è, se non lo spudorato tentativo di farsi finanziare i propri progetti economici con la ricchezza prodotta dagli operai, magari in combutta con gli Enti Locali "di sinistra"? (vedi Appello per il convegno di Pescara dell'11-2, in ecn.org ). L'utopia storica del riformismo è sempre stata quella di ridistribuire la ricchezza senza infrangere le regole del modo di produzione capitalistico, cosa che immancabilmente si è rivelata impossibile, confermando dunque in pieno la teoria rivoluzionaria, secondo la quale non si possono modificare i criteri di distribuzione se prima non si modificano i criteri sociali di produzione. In caso contrario, anche nell'eventualità di una distribuzione meno diseguale dei beni (anzi, delle merci) ciò avverrebbe sempre e comunque a spese degli unici produttori della ricchezza che sono e restano gli operai (e non i padroni, come pensa Fumagalli, il Manifesto, 9-2). Quindi, anche il cosiddetto stato sociale dei tempi andati, dispensatore "generoso" di sussidi di disoccupazione e di pensioni varie, era pur sempre alimentato da quote di plusvalore (ricchezza) estorto ai salariati. E oggi, che il capitalismo roso dalla crisi ha azzerato ogni spazio di riformismo e rapina e smantella ogni forma di salario indiretto/differito per dare ossigeno a saggi del profitto in affanno, la piccola borghesia ribelle (?!) sgomita per cercare di arraffare qualcosa nella grande abbuffata antioperaia. Se non ha capitali sufficienti per servirsi i piatti migliori, ha però cultura, creatività (?) e, soprattutto, cinismo e servilismo quanto basta per intrufolarsi nei meccanismi del potere. Un potere che non deve essere toccato (il Manifesto, 9-2); e ci mancherebbe altro: chi altri, se no, potrebbe offrire - oltre al fantomatico milione (ma, già che ci siamo, perché non due?) - opportunità di "autovalorizzazione" e di "autoreddito" ai nostri creativi?
Il reddito di cittadinanza, così come il salario sociale minimo per i disoccupati proposto da Rifondazione, si rivelano dunque per essere quello che sono: pura e semplice cocaina ideologica, che, una volta svanito l'effetto eccitante, lascia solo depressione e spossatezza. Se mai, infatti, i settori più combattivi del proletariato dovessero impadronirsi di queste parole d'ordine senza puntare immediatamente, inequivocabilmente e coerentemente all'abbattimento del sistema capitalistico, la disillusione e la sfiducia, eredità inevitabili di una sconfitta certa, ne farebbero carne da macello (fisico e politico) della borghesia. Se mai, infatti, il proletariato riuscisse ad avere forza sufficiente a imporre una cosa simile, sarebbe anche in grado di spazzare via la borghesia: ma allora, perché fermarsi a metà strada? La storia della lotta di classe è lastricata di "brillanti riforme" che sono state il prologo di spaventose carneficine proletarie.
La funzione oggettiva del reddito di cittadinanza e dei suoi cantori sta tutta qui.
cbBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2001
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