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Home ›Rivolta e rivoluzione per Furio Jesi - Una recensione
Nelle librerie è uscito da qualche mese un saggio di Furio Jesi intitolato Spartakus - simbologia della rivolta. Studioso di vastissima erudizione che ebbe interlocutori come Dumézil, Levi-Strauss e Kerényi, Furio Jesi - morto nel 1980 all'età di trentanove anni - dedicò al multiforme problema del mito la maggior parte delle sue ricerche e delle sue riflessioni. Militando nella CGIL fin verso la fine degli anni '60 e uscendone poi su posizioni di estrema sinistra, Jesi è generalmente indicato come uno dei principali punti di riferimento per chi - richiamandosi "senza dogmatismi" al metodo d'analisi marxista - volesse affrontare le tematiche concernenti il mito e le sue implicazioni sociali e politiche.
A noi, però, sembra che il marxismo di Jesi sia così tanto critico ed eretico rispetto al materialismo storico, da non essere più nemmeno marxismo.
Già la scorsa primavera era stato pubblicato un carteggio fra Jesi e Kerényi ("Demone e mito") nel quale i due, fra le altre cose, esprimevano il loro giudizio sulle cause del fenomeno nazista. Palesando una visione mistica della storia e in particolare del nazismo, Jesi arriva a dire: "Anche di fronte al nazi-fascismo, di cui odio le azioni, conservo una sorta di comprensione per ciò che vi era di umano nei suoi rappresentanti. (...) Ma credo di riconoscere nell'opera di Hitler qualcosa che trascende le responsabilità umane; credo insomma che il vero colpevole degli orrori del nazismo non sia stato l'uomo-Hitler, ma una forza temibile quanto gli angeli di Rilke (scrittore tedesco, n.d.r.) che si è servita di quell'uomo, invadendo la sua volontà".
Dunque, un Hitler posseduto da forze non-umane, che lo hanno spinto a fare gli interessi degli industriali e a scatenare una furiosa reazione antioperaia e anticomunista. Questa "forza temibile" aveva evidentemente le idee molto chiare in materia di lotta di classe. Che fosse il demone del capitale?
Ma veniamo all'ultimo libro. Spartakus, come dice lo stesso autore nell'introduzione, non è una storia dell'insurrezione spartachista del 1919, ma da essa prende le mosse per trattare il concetto di rivolta in termini generali, con particolare riguardo ai miti e ai simboli che sovente l'accompagnano.
Purtroppo, parte subito male. All'inizio del capitolo 1, infatti, sostiene che "Alla condanna morale del capitalismo la dottrina marxista ha aggiunto la certezza che ferree leggi economiche siano destinate a determinare entro un certo limite di tempo la disgregazione e il crollo del capitalismo stesso." Se così fosse, perchè scrivere il Manifesto del Partito Comunista? Perchè scrivere Il Capitale? Perchè fondare l'Internazionale? Perchè avere sostenuto in ogni circostanza che senza organizzazione non c'è rivoluzione? Perchè avere sostenuto la necessità ineliminabile della lotta? Se la fine del capitalismo fosse già scritta nelle stelle, verrebbe da sé: perchè affannarsi nell'arena del conflitto politico quando la vittoria è già stata assegnata? Andiamo avanti.
Tutto il discorso di Jesi verte sull'idea che mentre la rivoluzione è "un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia."
Per quanto ne sappiamo, non esiste un tempo che non sia storico: un tempo a-storico è una contraddizione in termini, un ossimoro riferibile giusto all'illo tempore del mito, ma non certo ad un avvenimento reale come la rivolta. La sospensione del tempo storico avverrebbe allora solo nella mente dei rivoltosi, che percepirebbero la loro rivolta come qualcosa che vale, al di là delle sue ripercussioni... immediate (stavamo per dire "terrene").
Gli operai di Berlino quindi, più che proletari determinati a sconfiggere concretamente la socialdemocrazia e i corpi franchi per liberarsi dallo sfruttamento e dalla miseria, non erano altro che una massa di esteti che volevano compiere il bel gesto della rivolta contro i mostri del capitale. E anche nella sconfitta l'atto insurrezionale sarebbe comunque valso per se stesso, perchè nella dinamica della rivolta_"la stessa, eventuale, vittoria non è tanto la soppressione dell'avversario quanto il suo annichilimento morale, il porgli dinnanzi uno specchio, il contrapporgli vittime eroiche."_ L'importante, insomma, non è vincere, ma partecipare.
Si disvela così l'inattualità della rivolta, che, secondo Jesi, è cosa buona e giusta: "Se ciò che importa è unicamente l'oggi o il domani, non vi è azione più riprovevole della rivolta. Ma se il "dopodomani" conta, e conta più dell'oggi e del domani, la rivolta è un fatto altamente positivo". La rivolta sarebbe cioè epifania di una vittoria futura, di un cambiamento storico a lunghissimo termine. Ma - a breve termine - favorisce almeno una maturazione della coscienza di classe? Neanche per sogno: "L'epifania del dopodomani è maturazione di una coscienza umana, per cui sarebbe limitativo parlare di coscienza di classe". Cosa sia questa coscienza umana, non è dato saperlo. Forse, visto che il dopodomani dovrebbe essere il comunismo, si tratta di una coscienza libera dai limiti che la divisione in classi impone inesorabilmente alla coscienza stessa. Ma come fa a maturare una coscienza di questo tipo senza le sue indispensabili premesse materiali, cioè finchè la società è ancora divisa in classi? Evidentemente, per il Nostro, prima viene la coscienza, poi la realtà.
Ma ecco che, sul finale, i nodi riformisti vengono al pettine. Secondo Jesi, infatti, "il rivoluzionario marxista riconosce molto spesso l'impossibilità propria e di tutti i propri successori di giungere a un'età dell'oro, e ciò nonostante si sente impegnato a eliminare - pur entro ristretti limiti - sofferenze e ingiustizie". Noi non sappiamo quali rivoluzionari marxisti abbia conosciuto Jesi, ma sicuramente erano poco rivoluzionari e poco marxisti. Se per età dell'oro si intende la società dopo la rivoluzione proletaria, allora è sicuro che ogni autentico rivoluzionario marxista vuole e deve lottare per raggiungere l'età dell'oro, pena il non essere ciò che si pretende di essere, cioè marxisti e quindi - inevitabilmente - rivoluzionari. E questo non per una fede religiosa nell'ora X dell'assalto al potere, ma perchè il marxismo ritiene che, finchè vige il modo di produzione capitalistico - e vigerà finchè sarà in piedi il potere borghese - non è oggettivamente possibile eliminare in modo consistente sofferenze e ingiustizie, indipendentemente dal fatto che poi anche l'età dell'oro avrà i suoi guai e i suoi dolori.
GS
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #12
Dicembre 2000
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