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Home ›Sviluppo e occupazione secondo il modello americano
La pubblicistica borghese esalta il modello economico statunitense ma bara con i numeri
Proposto con inaudita determinazione dai neo liberisti e dai liberisti di sempre, dai globalizzanti e persino dai globalizzati come se fosse una verità rivelata, il dato in base al quale l'economia americana avrebbe risolto il problema dello sviluppo e della occupazione, sembrerebbe cosa acquisita a tal punto da non meritare critiche o analisi di verifica, ma solo plauso e ammirazione.
I dati forniti recentemente dall'amministrazione Clinton parlano di un incremento medio del Pil nell'ultimo decennio del 3%, della creazione di quasi 8 milioni di posti di lavoro e di un tasso di disoccupazione del 4,6%, il più basso nella storia americana dalla chiusura della seconda guerra mondiale. Una sorta di primato mondiale che dimostrerebbe come il capitalismo sia vivo e vegeto, forte come non mai, in grado di produrre sempre più ricchezza sociale a tassi di incremento notevoli e di perseguire l'obiettivo della piena occupazione in tempi brevi se non brevissimi, a condizione di rispettare le ricette della nuova politica economica di cui gli Usa sarebbero i migliori interpreti.
Che l'economia americana stia attraversando una fase relativamente positiva, relativamente all'andamento critico di Europa, Giappone e dei paesi asiatici è fuori discussione, sono invece tutti da dimostrare i dati statistici e la linea di tendenza che testimonierebbero la grandiosità del fenomeno.
Dal punto di vista della concorrenza interimperialistica il capitalismo americano, dopo aver risolto le questioni inerenti al costo e alla gestione della rendita petrolifera con la guerra del Golfo, ha avviato con largo anticipo la diminuzione del costo del denaro favorendo un processo di ristrutturazione economica ad alto contenuto tecnologico nei settori particolarmente esposti alla concorrenza internazionale. Il che gli ha consentito di riguadagnare margini di competitività perduti negli anni settanta e ottanta, ma non di esprimersi a quei livelli che le false statistiche indicano.
L'incremento del Pil, ad esempio, se calcolato in rapporto all'andamento demografico, ovvero mettendo in relazione due variabili tra di loro omogenee e in parte interagenti, più ricchezza sociale prodotta e maggiore numero di abitanti, non è del 3% e nemmeno del 2. L'economista Lester Thurow ha calcolato che negli ultimi venticinque anni l'incremento dell'economia americana non è mai stato superiore all'1%, nemmeno nell'ultimo decennio. Il che conferma che nei paesi ad alta industrializzazione, persino nella fasi di crescita economica, esistono notevoli difficoltà nel processo di accumulazione del capitale e nella produzione addizionale di merci e servizi.
L'altro dato, quello relativo alla creazione di nuovi posti di lavoro, è frutto di manomissione statistica. Tra gli occupati vengono calcolati circa sei milioni di studenti tra i 16 e i 24 anni che in nessun calcolo statistico europeo normalmente vengono considerati facenti parte della forza lavoro. Negli Usa vengono considerati lavoratori occupati tutti coloro che dichiarano di svolgere lavoretti saltuari almeno per un'ora alla settimana (baby sitter, distribuzione dei giornali a domicilio). Nel computo rientrano anche 20 milioni di lavoratori saltuari che riescono ad essere occupati quando trovano lavoro, chi due mesi all'anno, chi quindici giorni, chi lavora per una settimana e poi deve attendere mesi prima di usufruire di un altro lavoro. Vengono inoltre considerati occupati a pieno titolo 25 milioni di lavoratori a part time il cui impegno è in media di 24 ore alla settimana. E circa 6 milioni sono impiegati per 14 ore alla settimana e 1,3 milioni per 4 ore. Al massimo questi lavoratori dovrebbero essere calcolati per la metà e/o un terzo dei posti dichiarati e non come lavoratori a tempo pieno. Se depurassimo le statistiche americane da questi evidenti errori e manomissioni degli otto milioni di posti lavoro creati nell'ultimo decennio ne rimarrebbero si e no due.
Ne consegue che gonfiando il dato statistico relativo all'occupazione si contiene quello della disoccupazione. Il 4,6% quale ultimo dato riferito ai senza lavoro è altrettanto falso come quello di 8 milioni di nuovi posti di lavoro con una proporzione inversa. In aggiunta va chiarito che in questo dato statistico non trovano posto 1,7 milioni di carcerati (prevalentemente neri e cicanos appartenenti alle stratificazioni sociali più deboli, al sottoproletariato urbano), il 2% della popolazione attiva, che se in libertà andrebbero a gonfiare le file dei disoccupati e non certo quello dei lavoratori full time o part time e coloro i quali non si iscrivono più alle liste di disoccupazione perché hanno perso anche la speranza di trovare un posto di lavoro attraverso i canali ufficiali e che quindi scompaiono dalle statistiche. Sommando il tutto al numero dei lavoratori saltuari e a quelli part time, si arriverebbe ad un tasso di disoccupazione reale di circa il 12-13%, in linea se non al di sopra dei tassi europei.
Falsificazioni a parte, ciò che ha consentito all'economia americana di esprimersi a livelli relativamente buoni nei settori trainanti, è stato l'enorme incremento dello sfruttamento della forza lavoro. Secondo una indagine del Wall Street journal dell'agosto '96, da allora le cose sono solo peggiorate per i lavoratori, le ore di lavoro su base annua sono aumentate rispetto agli anni settanta di un mese. In alcuni settori, come quello automobilistico, tra straordinari e fine settimana lavorativi si sono toccate le 84 ore settimanali. In compenso i salari sono diminuiti drasticamente. Secondo i dati del Bureau of labor statistics, il salario reale è diminuito mediamente del 10% rispetto agli anni settanta. La fascia più colpita è quella giovanile. Per i lavoratori maschi tra i 16 e i 35 anni con diploma superiore, i salari sono scesi: per gli ispanici del 22,8%, per gli afro americani del 27,8%; per i bianchi del 24%. Come se ciò non bastasse, in venti anni la società americana è riuscita a produrre un esercito di nulla tenenti, ovvero di persone che sopravvivono al di sotto della soglia di povertà, di quaranta milioni di persone. Il dato più allarmante è che la metà di coloro che appartengono a questa categoria di diseredati ha un lavoro con il quale mantiene una famiglia. Il che significa che i salari di questi "working poor" (lavoratori-poveri) sono al di sotto di ogni ragionevole livello, umilianti e affamanti. Le stesse statistiche dicono che mentre negli anni settanta con un salario medio si manteneva una famiglia di tre-quattro persone, oggi di salari ne occorrono due per mantenere il medesimo livello di vita, altrimenti si cade nell'inferno della mera sopravvivenza come i già citati lavoratori poveri. Se gli Usa rappresentano un modello al quale le borghesie europee vogliono ispirarsi, e in parte già lo stanno facendo, si andrà a delineare un nuovo, tragico scenario, nello sfruttamento del proletariato. Per i lavoratori ci sarà solo precarietà del posto di lavoro, flessibilità in entrata e in uscita dai meccanismi produttivi, super sfruttamento a salari reali sempre più bassi, fame, insicurezza e pauperizzazione. Che poi è il solo futuro che il capitalismo, di cui gli Usa sono la propaggine più avanzata, è in grado di garantire.
fabio damenBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 1999
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