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La Crisi degli anni settanta ha decretato la fine del keynesismo, quella odierna il tracollo del neo-liberismo
Il 1998 si è chiuso lasciando in eredità al nuovo anno una crisi economica profondissima che ha in sé tutti i presupposti per divenire sistemica e di portata storica. In conseguenza di essa nell'intera area del Sud-est asiatico la disoccupazione tocca ormai milioni di lavoratori nonostante che i salari siano bassissimi e sul costo del lavoro non gravino oneri sociali di sorta. La miseria, che in quelle zone sembrava essere stata sconfitta per sempre, è tornata a dilagare e a martoriare milioni e milioni di uomini, donne e bambini. Lo stesso Giappone, che per tutti gli anni settanta e ottanta è stato indicato come il modello a cui tutta l'economia mondiale avrebbe dovuto uniformarsi, è alle prese con una crisi finanziaria che rischia di mandare in frantumi il suo intero sistema bancario.
Per evitare il disastro, i vari istituti di ricerca, le istituzioni economiche a cominciare dal Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, e tutti gli economisti borghesi, indipendentemente dalla scuola di appartenenza, invocano l'adozione di controlli sui movimenti del capitale finanziario e il rilancio delle politiche di finanziamento in deficit della spesa pubblica.
A leggere questi appelli, a sentire le dichiarazioni degli uomini politici che parlano di un possibile New Deal capace di riassorbire la disoccupazione che in tutti questi anni è andata sempre crescendo e di rilancio del "circolo virtuoso" investimenti/sviluppo sembra che la crisi sia stata provocata da un capriccio degli dei e che in questi ultimi trenta anni non sia successo nulla di nuovo sotto il sole del capitale. Torniamo a Keynes e tutto tornerà come prima!
La denuncia degli accordi di Bretton Woods, la deregolamentazione dei mercati finanziari, la liquidazione dei controlli sul sistema del credito, la nascita del mercato dei derivati finanziari e l'esplosione della sfera finanziaria, per citare a caso solo qualcuno dei fenomeni che hanno caratterizzato questi ultimi venticinque anni, sembra che non siano mai esistiti; che siano il frutto di una fantasia malata. Amnesia? Distrazione? Superficialità? Ignoranza? Disonestà intellettuale? Probabilmente di tutto un po', ma sicuramente a prevalere è la consapevole volontà di tacere la realtà e la completa incapacità del pensiero economico borghese a comprenderne le sue dinamiche.
Per tutti gli anni Sessanta, grazie a Keynes, l'economia politica borghese ha ritenuto risolto il problema delle crisi, ma a essa sfuggiva la differenza fra crisi congiunturale e crisi ciclica e quindi di fronte ai risultati positivi che venivano dalle politiche di sostegno della domanda aveva motivo di ritenere che il finanziamento in deficit della spesa pubblica avrebbe sortito risultati positivi sempre e comunque. L'idea dominante era che bastava che lo stato tenesse sotto controllo la leva del credito in funzione anticiclica per evitare l'insorgere delle crisi e assicurare tassi di sviluppo elevati. Se la domanda tendeva al ristagno bastava che lo Stato costituisse una domanda aggiuntiva di beni e servizi immettendo liquidità nel sistema per rilanciare investimenti, occupazione e sviluppo. Viceversa, se i prezzi tendevano a crescere per un eccesso di domanda, bastava che lo stato favorisse mediante il rialzo dei tassi di interesse una contrazione della massa monetaria, perché l'equilibrio fosse ristabilito.
A infrangere il dogma keynesiano non fu, come oggi si vorrebbe far credere, la battaglia condotta contro di essa dalla scuola monetarista e in particolar modo dall'economista statunitense Friedman e i suoi seguaci; ma dall'insorgere nei primi anni Settanta di un fenomeno mai osservato prima e cioè la crescita dell'inflazione insieme al calo della domanda. Come è noto, non essendo previsto in alcun manuale di economia, per descrivere il fenomeno si ricorse al neologismo stagflazione per sottolineare la paradossale concomitanza di inflazione e stagnazione. Per fronteggiare il fenomeno rimanendo fedeli a Keynes lo Stato avrebbe dovuto contemporaneamente immettere liquidità per sostenere la domanda e ridurla per frenare l'inflazione. La situazione era così palesemente contraddittoria che soltanto un pazzo avrebbe potuto continuare a rimanere fedele ai precetti dell'economista inglese. Prese quindi il sopravvento la scuola monetarista o neo-liberista che spiegava il paradosso sostenendo che il controllo esercitato dallo stato sul credito non consentiva una corretta determinazione del valore reale delle monete come invece avveniva per le merci i cui prezzi erano determinati dalla legge della domanda e della offerta. Secondo Friedman sarebbe bastato rimuovere i controlli sul credito (deregulation) ed eliminare gli interventi a sostegno della domanda perché il paradosso si risolvesse e l'economia potesse riprendere il suo corso a vele spiegate grazie al fatto che così facendo si sarebbe dato più spazio all'offerta di merci con la conseguente riduzione dei prezzi e il riassorbimento dell'inflazione. Era falso; tant'è che né Friedman né nessun altro economista della sua scuola ha mai dato spiegazioni plausibili del fallimento delle politiche liberiste negli anni trenta che condussero appunto a Keynes e all'intervento dello stato nell'economia. Era falso, ma poiché era esattamente quel che voleva il grande capitale finanziario, soprattutto quello statunitense, in breve il neoliberismo soppiantò il keynesismo e divenne a sua volta il dogma che avrebbe portato al regno del "cittadino-consumatore" e al benessere diffuso su scala planetaria.
Il monetarismo non ha dato risultati apprezzabili, ma ha favorito sulla pelle del proletariato mondiale la ricostituzione dei margini di profitto del grande capitale monopolistico erosi dalla crisi degli anni Settanta mediante la dilatazione della rendita finanziaria. Né poteva essere diversamente visto che la stagflazione, come abbiamo più volte sottolineato, non era il prodotto di una politica economica errata, ma delle contraddizioni proprie del processo di accumulazione capitalistica che avendo portato al calo del saggio medio del profitto, spingeva i capitali verso la speculazione, per cui da un lato si aveva la stagnazione e dall'altro, grazie al potere monopolistico del grande capitale finanziario, una forte attività speculativa sui prezzi dei prodotti industriali.
Il pensiero economico dominante d'altra parte, proprio per essere espressione degli interessi della conservazione borghese, è del tutto incapace di analizzare la crisi muovendo dalle contraddizioni strutturali del sistema. La sua attenzione si sofferma quindi solo sul movimento dei capitali come se fosse questo a generarli e ad accrescerli e non il plusvalore estorto nella produzione delle merci. Muovendo da questa premessa le politiche economiche che ne scaturiscono non possono che essere rivolte o al sostegno della domanda o a quello dell'offerta; ma è evidente che quando la crisi ha carattere strutturale entrambe non possono che fallire e condurre nella direzione esattamente opposta a quella pronosticata.
Così come il keynesismo che pensava di aver risolta il problema economico della crisi mediante il sostegno della domanda ha dovuto fare i conti con la stagflazione, il monetarismo deve far i conti con la iperproduzione di capitale fittizio (anche questa prevista da Marx con largo anticipo rispetto ai tempi) conseguente alla deregolamentazione del credito e alla liberalizzazione dei mercati da esso propugnate.
L'idea che il mercato avrebbe ripristinato "la verità" alla prova dei fatti si è dimostrata fallace almeno quanto quella keynesiana tant'è che l'economia mondiale si ritrova oggi a dover far i conti sostanzialmente con lo stesso problema degli anni Settanta. Allora vi fu stagnazione e inflazione insieme; oggi invece si verifica il paradosso della deflazione insieme a tassi di interessi prossimi allo zero e una forte diminuzione dei prezzi a cominciare da quelli delle materie prime. Che è come dire che siamo in presenza dell'altra faccia della stessa medaglia e del totale fallimento del pensiero economico borghese sia nella versione che propugna il sostegno della domanda (keynesismo) che in quella che propugna il sostegno dell'offerta (neoliberismo). L'inevitabile prosieguo della crisi farà invece emergere tutta l'attualità del marxismo e la sua stupefacente capacità anticipatrice.
gpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #1
Gennaio 1999
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