La risalita delle borse - Fuochi fatui d'autunno

In ottobre le borse di tutto il mondo, tranne quella giapponese, hanno recuperato gran parte delle perdite subite negli ultimi mesi.

Il miracolo che ha fatto dire al presidente della Federal Reserve - la banca centrale americana - Alan Greenspan, che il pericolo di una grande recessione mondiale è ormai acqua passata, lo avrebbero reso possibile il rifinanziamento, da parte dei paesi del G7, del Fondo monetario internazionale per 90 miliardi di dollari (150 mila miliardi di lire); l’intervento di quest’ultimo a favore del Brasile e il piano di salvataggio del sistema bancario varato dal governo Giapponese.

A dire degli economisti questi miracoli sono resi possibili dal fatto che l’economia moderna non si reggerebbe più tanto sugli andamenti della produzione reale delle merci quanto sulle cosiddette aspettative degli investitori. E sarebbero queste, che è come dire la psicologia umana, a determinare le sue catastrofi e i suoi successi. Insomma: il mondo si sarebbe salvato dalla catastrofe grazie alle fesserie raccontate dal governo giapponese, dal presidente brasiliano Cardoso e dai ministri del tesoro dei paesi del G7 che, da Londra, hanno minacciato ferro e fuoco contro la speculazione finanziaria stanziando appunto quei 90 miliardi di dollari di cui si diceva prima e sbandierando la volontà di procedere a una nuova regolamentazione dei mercati finanziari.

Se quella delle aspettative non fosse una storiella raccontata ad arte, non ci resterebbe che concludere che il mondo è perduto per sempre perché sarebbero talmente tanti i coglioni che lo abitano da non meritarsi altro che di perire e anche - come si dice a Napoli - e subito , all’istante. Non si capisce infatti per quale ragione, se il problema consisteva nel fare annunci più o meno credibili, si sia atteso più di un anno (la crisi asiatica ha cominciato a manifestarsi sin dal giugno ‘97) prima di intervenire.

I 90 miliardi (di cui 30 già impegnati nel salvataggio dell’economia brasiliana) non sono poi un gran cifra: il deficit di bilancio dell’Italia, per esempio, è di poco più piccolo e comunque è poca cosa rispetto alla montagna del debito mondiale e/o anche solo di quello dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi finanziaria. In realtà, sessanta miliardi di dollari probabilmente non basteranno a fronteggiare neppure i soli punti caldi dell’area asiatica dove si calcola che vi siano sofferenze per oltre 300 miliardi di dollari.

La ripresa delle borse, in realtà, non ha nulla a che vedere né con gli annunci londinesi del G7 né con la sbandierata volontà di ripristinare controlli sui mercati finanziari e valutari; ma è essa stessa una logica conseguenza della crisi e, se correttamente letta, una conferma del suo carattere sistemico.

La marea dei capitali in fuga dalla Russia, dall’America Latina e dall’Asia (dal Giappone in particolar modo), non trovando altre opportunità di investimento si è riversata su alcune borse asiatiche, che hanno goduto di un certo rimbalzo a seguito del precedente crollo, ma soprattutto su quelle americane e Wall Street. Questo movimento però non induce in alcun modo un miglioramento dei cosiddetti fondamentali dell’economia mondiale quanto, piuttosto, la crescita di una nuova bolla speculativa pronta a scoppiare al primo stormir di fronde con conseguenze ancora più gravi di quelle causate dall’esplosione della bolla asiatica.

La tanto beatificata globalizzazione e liberalizzazione dei mercati finanziari, per un lungo periodo di tempo ha favorito l’afflusso sui mercati asiatici di grandi masse di capitali attratti dall’ancoraggio di quelle valute al dollaro e da tassi di interesse più alti di quelli statunitensi a prescindere da una corretta valutazione della prospettiva e della forza reale delle economie locali.

Ne è scaturita così una spinta a investire su ogni cosa e in particolare modo nel settore immobiliare che ha dato luogo a una bolla finanziaria di enormi dimensioni.

Quando a causa della crisi giapponese si è scatenata la guerra tra yen e dollaro e il rafforzamento di quest’ultimo, le fragili monete della Thailandia, della Corea del Sud e dell’Indonesia, seguendo la moneta statunitense hanno provocato una perdita di competitività di questi paesi e poi, al manifestarsi delle prime incertezze, una precipitosa fuga di capitali e una fortissima svalutazione di tutte le valute del l’area. Nella speranza di frenare questa vera e propria emorragia sono stati innalzati i saggi dei tassi di sconto a livelli stratosferici, ma il risultato è stato il fallimento di un gran numero di imprese e il crollo verticale dell’economia dell’intera area e quello del prezzo delle materie prime e delle economie dei paesi che le esportano. Si è quindi da un lato registrata una forte contrazione della domanda mondiale e dall’altro una sovraccapacità produttiva dei paesi in cui in passato si erano riversati i capitali giapponesi, statunitensi ed europei in eccedenza.

Il dato che meglio di tutti rappresenta l’attuale stato delle cose sul mercato mondiale è quello relativo al deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti che si avvia a raggiungere i 300 miliardi di dollari, il più grande di tutta la loro storia, nonostante la forte svalutazione subita dal dollaro in questi ultimi mesi abbia notevolmente accresciuto la competitività delle merci made in USA.

Dall’invasione di merci provenienti dall’Asia, non si salva neppure l’Europa che per quanto meno esposta alla variabilità dei flussi dell’import/export deve comunque misurarsi con un mercato mondiale in contrazione. Prevedere una contrazione dell’economia anche in questi ultimi paesi è a questa punto scontato come scontato è prevedere una riduzione dei profitti delle imprese nonostante che i titoli azionari continuino a far registrare quotazioni piuttosto elevate.

A Wall Street, il rapporto tra prezzo medio delle azioni e utili medi delle società oggi è del 25,2 per cento, a giugno ‘97 era del 21,5 e nei dieci anni precedenti era stato pari al 16,6 per cento. Ma mentre allora era atteso un incremento degli utili del 14 per cento ora gli analisti prevedono a mala pena una crescita del 3,4 per cento. Tranne che in Italia lo stessa sopravvalutazione dei titoli azionari si registra anche su tutte le più importanti piazze borsistiche europee.

La Germania che aveva una media pari al 15,3 cento oggi è al 18,7 e la Gran Bretagna che ne aveva uno pari al 17,5 ora ne ha uno pari al 19,1. Ma anche se rispetto agli Stati Uniti in Europa, tranne che in Gran Bretagna, la previsione degli utili è però più favorevole resta “ Il problema è che - come rileva C. Clericetti su La Repubblica - Affari & Finanza del 9 nov.1998 - è difficile pensare che se Wall Street cede , le altre borse rimangono immutate. Basta guardare l’andamento quotidiano delle contrattazioni: spesso i mercati europei, quando nel pomeriggio apre la Borsa americana, cambiano bruscamente di segno, passando dal negativo al positivo e viceversa a seconda di come si muove l’indice Dow Jones”.

Per evitare l’esplosione di questa nuova bolla che si sta gonfiando sul mercato finanziario mondiale, occorrerebbe che i capitali trovassero occasioni redditizie nell’investimento produttivo e che il loro movimento fosse a ciò vincolato come è stato a partire dai primi anni trenta e fino a tutti gli anni sessanta. Ma è proprio qui che - come direbbe Marx - la vecchia talpa ha scavato in profondità. Le contraddizioni interne al processo di accumulazione del capitale hanno fatto sì che gli investimenti produttivi da lungo tempo sono scarsamente redditizi per cui i capitali li fuggono cercando negli alti tassi di interessi (tuttora, nonostante i recenti cali, i tassi reali superano sul mercato mondiale mediamente il 4 per cento contro una crescita media del Pil che a mala pena supera il punto percentuale) e nella speculazione la loro valorizzazione. È questa è anche la ragione per cui i governatori delle banche centrali dei paesi del G7 resistono alle pressioni esercitate su di loro dai rispettivi governi affinché immettano nuova liquidità sui mercati. Essi sanno infatti che da ciò difficilmente scaturirebbe una crescita dell’economia reale quanto piuttosto una crescita dell’inflazione.

La crisi mondiale che si trascina sin dai primi anni ‘70 e di cui quella asiatica è una fase, ha già avuto il suo 1929. Il Giappone , in quanto maggior paese creditore del mondo, si è trovato nelle vesti degli Stati Uniti di allora e gli Stati Uniti in quelle della Gran Bretagna.

E come oggi negli Stati Uniti anche allora nel Regno Unito, dopo il crollo del sistema bancario americano, si registrò una crescita dei corsi azionari, ma era un fuoco fatuo. Subito dopo venne la grande depressione e la guerra mondiale.

gp

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.