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Le borghesie indiana e pakistana alla rincorsa di una povera egemonia sulle spalle di masse di diseredati
Lo stato indiano ha fatto esplodere le sue 5 bombe atomiche e le televisioni di tutto il mondo hanno fatto vedere l’entusiasmo delle folle indiane per questo “atto di rivincita” come la borghesia indiana l’ha voluto presentare. Sono seguite le esplosioni delle bombe del Pakistan, arci-nemico dell’India a causa della querelle sul Kashmir.
Innanzitutto osserviamo che le fotografie delle folle festanti che ci è capitato di vedere erano riprese - guarda un po’ - davanti al Palazzo della Borsa di New Dehli.
Che le borghesie dei due paesi si elettrizzino “a ragione” davanti alle prove di potenza dei loro stati è un fatto; meno probabile è che tali performance di efficienza e potenza militari costituiscano ragioni di soddisfazione delle masse proletarie e semi-proletarie.
Il primo botto, indiano, è stato l’affermazione da parte indiana di una volontà di egemonia nell’area asiatica alla quale ha risposto prontamente proprio l’altra potenza regionale che quella egemonia contesta e contrasta e alla quale, a sua volta vorrebbe aspirare, il Pakistan.
Gli Usa formalmente hanno chiamato alla solidarietà nella condanna, ma gli altri attori sulla scena asiatica, Cina Russia e Giappone, hanno risposto blandamente impegnati come sono a sostenere i tradizionali loro alleati. La Russia é infatti il paese che fornisce tecnologia e materie prime all’India in campo atomico, mentre la Cina fa la stessa cosa con il Pakistan.
La Cina, peraltro esercita di fatto il ruolo di potenza militare nella sua zona con la occupazione militare di una serie di isolotti sui quali pretende la sovranità contro le rivendicazioni di Vietnam, Malesia e Indonesia. (1)
Il Giappone è di fatto la maggior potenza economica (industriale e finanziaria) del continente, ma soffre ancora di quel nanismo militare che sta fra le ragioni dell’ancora rimandata “resa dei conti” con il concorrente americano. Ma il Giappone fa parte del Nord, che nella mitologia politica corrente, si contrapporrebbe al quel Sud di cui India, Pakistan e anche la Cina si dicono parte.
E ciascuno di essi aspira a primeggiare sugli altri.
Quando parliamo di paesi parliamo di stati e quando parliamo di stati parliamo di borghesie nazionali, alle quali poco importa delle condizioni di vita dei rispettivi subordinati (il proletariato, i disoccupati, i contadini con terra o, più facilmente, senza terra, i marginali).
L’India è patria della sesta impresa mondiale di servizi informatici (Infosys). L’esportazione indiana di servizi di ingegneria informatica è stata di 700 milioni di dollari nel 1996 e si attende che raggiunga la cifra di 2,5 miliardi di dollari nel 2000. È poca roba nel giro d’affari mondiale in questo settore (0,5 per cento circa) ma è moltissimo a fronte del nulla degli altri paesi “del Sud”. D’altra parte l’India possiede un complesso militare-industriale fra i primi del mondo, che costituisce il secondo gruppo industriale del Paese con trecento mila dipendenti e capace di esportare sui mercati mondiali armi leggere, elicotteri, fregate e mezzi di pattugliamento marittimo, strumentazioni elettroniche e veicoli militari.
Ma intanto la crescita del Pil indiano, giunta al 7,5% nel 1996, é calata al 5,5% nel ‘97 e nel ‘98 sta ancora mostrando segni di ulteriore discesa. È necessario tenere presente che in un paese come quello indiano, in cui la popolazione ha un ritmo di crescita elevato, la caduta della crescita del Pil sotto il 5% significa un drastico peggioramento della situazione economica della maggior parte della popolazione. E questo può avere effetti sociali devastanti. Si consideri infatti che il reddito pro capite é di soli 279 dollari l’anno, che metà della popolazione indiana guadagna dalle 25 alle 95 mila lire al mese, che il 37% della popolazione vive sotto la soglia della povertà (calcolata nel 1994 dalla Commissione pianificatrice indiana con i criteri locali con i quali si può immaginare cosa si possa intendere per soglia di povertà indiana!), che il 61% delle donne indiane é ancora analfabeta. In sostanza, a fronte di una popolazione prossima al miliardo di persone, i consumatori solventi (coloro cioè che possono pagare e rappresentano qualcosa per il capitale) sono solo 200 milioni; gli altri sono alla fame e ancora in diverse città del subcontinente di fame ne muoiono centinaia ogni giorno.
Il Pakistan, da parte sua non sfigura troppo sul piano militare ma per altro se la passa ancora peggio. Il suo esercito controlla parti consistenti di diversi settori, dall’agricoltura ai trasporti all’elettronica e lo stato destina alle spese militari un terzo delle sue uscite correnti. Ma è affogato nei debiti internazionali, che ammontano a 30 miliardi di dollari con una rata di 1,2 miliardi di dollari in scadenza tra sei mesi. Il governo pakistano ha dichiarato nelle scorse settimane lo stato di emergenza congelando immediatamente le operazioni in valuta estera sui conti correnti privati per impedire una precipitosa fuga di capitali verso l’estero.
Fa specie allora leggere, a seguito delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite (leggi USA), le dichiarazioni del primo ministro pakistano Nawaz Sharif ,in visita a Dubai il 7 giugno. Ha detto che taglieranno le spese per far fronte a tali sanzioni per limitarne l’impatto “tramite una utilizzazione ottimale delle risorse, misure di austerità, sviluppo della attività economica e taglio nelle spese non utili allo sviluppo”. Poiché le spese non utili all’immediato sviluppo capitalista sono quelle per l’assistenza, la scuola, la sanità, è chiaro che la borghesia pakistana si appresta a peggiorare le già drammatiche condizioni delle masse proletarie e semi-proletarie.
D’altra parte le sanzioni, formalmente estese a entrambi i paesi in concorrenza nella corsa al nucleare, sono un’arma molto flessibile ed elastica. Sui paesi che agli Usa interessa colpire duramente per la difesa dei propri interessi strategici (vedi Irak e relativa questione del petrolio) sono inflessibili e gli stessi Usa vigilano affinché vengano rispettate rigorosamente da tutti. È con fatica che Francia Germania e Russia sono riuscite a strappare qualche concessione su Libia, Siria e Cuba e un aumento della quota di “oil for food” dell’Irak; ciò ha aperto la strada alla fine delle sanzioni sul paese di Saddam, ma è ancora una strada lunga e tutta in salita. Invece nel caso in cui i paesi sanzionati, rientrino in qualche modo fra gli alleati degli Usa stessi, come è il caso del Pakistan e dell’india gli occhi possono chiudersi. Così si apprende che il Giappone non interferirà nel prestito al Pakistan da parte di un consorzio di banche giapponesi di 600 milioni di dollari per la costruzione di impianti petroliferi; e non sembra che agli Usa sia dispiaciuto granché.
Negli ultimissimi giorni i reiterati reciproci inviti da parte dei dirigenti di India e Pakistan a por fine alla rincorsa nucleare e a intavolare trattative fa pensare che presto i botti atomici saranno banditi e i due si metteranno d’accordo per non usare le armi nucleari. Ma questo non significa che siano finite le ragioni di tensione e di possibile conflitto.
Ci sono ancora grandi interessi contrapposti in gioco, ancora una volta legati al petrolio e ai suoi condotti e dunque ai maggiori operatori (del Nord) del settore (2). E se gli Usa, ma anche Russia e Giappone, non sono in condizione di condannare l’uno o l’altro dei contendenti allo stesso modo in cui gli Usa hanno condannato l’Irak, ciò significa che, a parte le manovre della diplomazia segreta e dei servizi, non potranno esporsi più di tanto - almeno inizialmente - in un possibile terzo conflitto indo-pakistano
Data la tragica situazione delle finanze - ma più in profondità dell’industria e della produzione - in quelle regioni (vedi gli articoli sull’Indonesia su questo numero) un ipotetico conflitto indo-pakistano potrebbe costituire una pericolosissima scintilla.
E a pagare saranno ancora le masse proletarie e semi-proletarie, se non sapranno ritrovare non le ragioni (perché ce ne son fin troppe) ma il coraggio e la volontà di reagire e ritrovare la strada che porta alla emancipazione della classe e dell’umanità dalla barbarie del capitale.
(1) Vedi Fantasmes de conflit en mer de Chine méridionale in Le Monde Diplomatique di Marzo 1996
(2) Vedi per esempio Avec les talibans, la charia plus le gazoduc in Le Monde Diplomatique del novembre 1996
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #6
Giugno 1998
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