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Danimarca
Al momento di chiudere il giornale, il 7 maggio, si è chiuso lo sciopero, dopo undici giorni dei lavoratori danesi in lotta per rivendicare la sesta settimana di ferie. Lo sciopero di più di 450 mila lavoratori di tutti i settori è stato indetto ed è guidato dai sindacati in quella che ha tutta l’aria d’essere una manovra politica in funzione del referendum sul consolidamento della Unione Europea. Ed è stato concluso da un voto del Parlamento su una proposta governativa di legge che ha imposto il ritorno al lavoro per il lunedì successivo.
Sul prossimo numero esamineremo più da vicino la vicenda politica per limitarci qui alle osservazioni sulle questioni che più direttamente ci interessano.
Occorre andare al di là della natura della rivendicazione in sé, peraltro legata alle questioni della flessibilità d’orario e di occupazione che qui già conosciamo: val poco una settimana di ferie in più se in cambio si dà la possibilità di lavorare cinquanta ore a settimana oppure venti, secondo le necessità della produzione capitalistica.
Cosa ha fatto il sindacato per sostenere la rivendicazione ed eventualmente imporla? Null’altro che mantenere lo sciopero dei settori coinvolti, non pochi d'altronde, e del mezzo milione di lavoratori aderenti e di fare un po’ di dichiarazioni, ma rimanendo passivo di fronte alle manovre della controparte padronale come la minaccia di tenere a casa i lavoratori non sindacalizzati e non in sciopero nell’evidente tentativo di mettere zizzania nella classe operaia. La classe nel suo insieme ha seguito con fiducia e non ha ancora dato segni di andare al di là del più frustro contrattualismo.
Ed è finita con due giorni di più di ferie all’anno e l’ordine perentorio di tornare al lavoro.
Russia
Il 9 aprile scorso la federazione dei sindacati indipendenti russi ha organizzato uno sciopero nazionale che nelle intenzioni doveva coinvolgere milioni di lavoratori e portare in piazza almeno 14 milioni di persone per protestare contro gli spaventosi ritardi nel pagamento di salari e stipendi. Le ragioni dello sciopero e di grandi manifestazioni stanno tutte in un dato: dieci miliardi di dollari di arretrati (al 1 marzo).
Dietro questo dato monetario ci sono i lavoratori della scuola, i lavoratori della sanità (dottori compresi) i minatori e gli altri dipendenti del settore pubblico, ma anche milioni di lavoratori delle imprese private che non hanno i soldi (dicono) per pagare i salari arretrati.
Già in marzo, Eltsin ha licenziato il suo primo ministro Viktor Chermomyrdin e lo ha sostituito con Kiriyenko proprio nel tentativo di “fare qualcosa a proposito dello stato di bancarotta del paese. E ha avuto successo: a parte le sceneggiate della opposizione parlamentare che hanno ritardato l’insediamento di Kiryienko, i sindacati si erano subito mostrati soddisfatti. Alexei Surikov, leader della Federazione dei sindacati indipendenti, dichiarava infatti alla Reuters quello stesso 9 aprile: “Kiriyenko ci ha ridato speranza; è pronto a cercare con noi un meccanismo di pagamento di questi debiti”. Dunque lo sciopero consisteva solo in una “giornata di azione” per dare il contentino ai più incazzati e mantenere il prestigio dei sindacati indipendenti presso i lavoratori.
È sintomatico che i rapporti su quello sciopero siano tanto contrastanti: i più entusiasti sostenitori di tutto quanto è fatto dai sindacati hanno parlato di milioni di operai in piazza, la Reuter titola invece “Pochi russi si uniscono lla protesta nazionale sui salari” e scrive: “Nonostante i bassi salari e le poverissime condizioni gli operai raramente hanno fatto vasti scioperi o inscenato grandi proteste dal collasso dell’Unione sovietica nel 1991. La paura di perdere il posto di lavoro spinge molti di loro a lavorare anche quando sono pagati con mesi di ritardo”.
È una realtà che gli stalinisti rifiutano di registrare, ed è ovvio. È la realtà di una classe che ha perso per ora fiducia nelle loro sirene: allevata nella tesi che quello sovietico fosse IL socialismo, non coltiva oggi alcuna speranza se non che Eltsin o chi per lui prima o poi possa pagare gli arretrati. Quanto a riportare i servizi e l’assistenza per quanto spartana e da caserma che la vecchia Urss assicurava, non ci spera proprio più nessuno.
E allora la marcia dei 50 mila a San Pietroburgo, dei diecimila di Mosca dei cinquemila di Vladivostock e di Novosibirk, è stata la partecipazione alla “Giornata di pressione” dei sindacati da una parte e il segnale che le condizioni di ripresa della lotta esistono. Quelle materiali esistono da sempre, quelle soggettive sono da ricostruire, ma facendo piazza pulita degli equivoci di settant’anni.
Polonia
Molto simili alle condizioni russe sono quelle in Polonia dove un migliaio di minatori della miniera di rame di Rudna hanno condotto uno sciopero di due giorni - il 1 e 2 aprile - contro i programmi di mobilità che prevedevano di trasferire molti di loro ad altre miniere del gruppo polacco KGHM. Questo è il maggior produttore europeo di rame (460 mila tonnellate nel ’97). I minatori di Rudna e di altri due impianti della KGHM (a Lublino e a Polkowice) hanno tenuto un sit in davanti al quartier generale dell’azienda per chiedere l’avvio dei negoziati. Non sappiamo quali sindacati e quanto essi siano stati coinvolti nelle azioni, ma è evidente che anche qui la lotta e’ rimasta confinata alle miniere del gruppo e con aspettative contrattualistiche.
Corea del Sud
Dal 9 aprile e per tutto il mese si sono avuti diversi scioperi nelle fabbriche coreane e nelle ferrovie contro la massiccia “campagna di licenziamenti” che il capitale coreano sta conducendo, dietro pressioni del capitale finanziario internazionale e in particolare del Fondo monetario internazionale.
Lo scorso dicembre il FMI aveva concesso un credito di 58 miliardi di dollari alla Corea a condizione che questa adottasse “strette misure di austerità”, il che come sempre significa bastonate sonore alla sola classe operaia. Da allora il numero di disoccupati è raddoppiato giungendo a 1,5 milioni di lavoratori. E i licenziamenti continuano a un ritmo stimato di diecimila al giorno. Impossibile non scioperare.
Nella conduzione di questi scioperi, tutti mantenuti nel più stretto isolamento l’uno dall’altro, si è distinta la Confederazione dei sindacati coreani (KCTU), quella che emerse poderosamente dopo le lotte memorabili dell’86. Ma e’ stata anche la Confederazione sindacale, magnificata da tutti i sinistri come “il sindacato di classe” coreano” (stile Unicobas) a firmare a febbraio l’accordo fra padroni governo e sindacati che sanciva il diritto a licenziare. Ora, dato l’impatto della crisi economica che ricade pesantemente sulle spalle della classe operaia, i sindacati stanno avendo un ripensamento. Già il 1 Aprile la KCTU si era data una nuova direzione a capo della quale ha messo Lee Gab-yong ed ha lanciato una piattaforma per la rinegoziazione del contratto con il FMI e per il rigetto dell’accordo: di qui i suddetti scioperi che al momento in cui scriviamo sono da tempo conclusi e senza alcun tangibile risultato.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #5
Maggio 1998
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