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Home ›La linea del fuoco - Storia degli operai e del reparto aste alla Breda Fucine
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente documento di un operaio della Breda Fucine, testimonianza di una realtà vivente e sofferente che troppa gentaglia politica si affanna a negare
Sesto San Giovanni, periferia nord di Milano, città ridotta in frammenti sospesi tra la produzione e un futuro da tecnocity, agenzie per lo sviluppo, piani di conversione, tradizione operaia, civiche scuole d’arte, fabbriche che spariscono e musei che chiudono. Le acciaierie Falk sono ancora di Falk ma sono spente, la Breda era dell’Iri e adesso non è più di nessuno, la Pirelli s’è trasferita, la Marelli quasi disciolta. Sesto aveva un turn over micidiale: 30.000 operai ogni dieci anni, in una città di centomila abitanti; l’anagrafe deve sembrare un campo di battaglia, quando si scrive che era un centro operaio bisognerebbe tenerne conto. Chi abita adesso a Sesto è probabilmente qualcuno che non c’era trent’anni fa. La memoria che se ne conserva non è di nessuno, sono i capannoni con già sopra scritti i piani di ristrutturazione residenziale e i pensionati ai giardini che non possono essere ingannati. La giunta comunale riempì gli incroci vent’anni orsono con grandi cartelli stradali bianco, rossi e verdi con sopra scritte frasi della costituzione italiana; adesso vogliono far lo stesso per ricordare le grandi fabbriche e mettere delle insegne “qui sorsero le acciaierie”, “in questa piazza c’era l’ingresso delle tute blu verso le catene di montaggio” e “ecco il reparto dove su trenta operai trenta entrarono nelle squadre di azione partigiana”. Ne vogliono cavar fuori un museo urbano, come per certi paesi montani dell’appennino, rendere l’onore delle armi e mettere a riposo i combattenti dell’unica guerra mondiale che non ha avuto un trattato di pace e che produce ricchezza maldivisa e morti al ritmo di qualche migliaio. In Italia, nell’anno di grazia mille e novecentonovantasette.
Finito il corso mi misero su quella macchina, enorme, almeno tre metri per quattro, dove saldavamo le aste. Mi sentivo felice; dopo quattro anni finalmente ero entrato in una fabbrica vera, operaio saldatore. Avevo dei guanti lunghi e un grembiule. Scendevano delle aste per il preriscaldo del giunto, un manovale le sistemava sotto la macchina, poi si chiudeva e si faceva la saldatura. Per poter lavorare con quelle temperature e le scintille, c’erano delle coperte di amianto che mettevamo sopra il pezzo; ogni cento, duecento aste, la coperta era bruciata e ridotta in polvere, e bisognava cambiarla. Lavoravamo in quattro a quella macchina; adesso sono morti tutti e tre, sono rimasto io solo come vivente. Saldavamo le aste alla Breda Fucine, riparandoci gli occhi e le mani con l’amianto. C’era un mio collega che veniva da Bergamo, mi ricordo benissimo, veniva mezz’ora prima per accendere il fuoco e aprire il tetto per cacciare fuori la nuvola di fumo delle saldature del giorno prima. C’era polvere dappertutto. Lì si usava un metodo che si chiama saldatura a scintillio: i due pezzi venivano riscaldati e poi con un corrente fortissima si fondevano l’uno con l’altro. A volte dei frammenti cadevano nella vasca di recupero dell’olio e si incendiava il macchinario. E allora dovevamo scendere sotto e spegnere il fuoco con dei piccoli estintori; ci tenevano fermi per un’ora, un’ora e mezzo e poi si riprendeva il lavoro. Io su questa macchina ci ho lavorato dal ‘74 fino all’83, dieci anni. Ci davano il mezzo litro di latte al giorno se cominciavamo a tossire o a vomitare; a volte i sindacati ci facevano fermare ma non c’era nessuna resistenza; non mi dicano che difendevano gli operai, a me e ai miei compagni non ci ha difeso nessuno. È venuta anche la Ussl, il servizio di medicina preventiva per gli ambienti di lavoro, che ha fatto la relazione indicando punto per punto tutto quello che non andava, e teniamo tanto di documentazione su quel reparto mattatoio. Al padrone gli interessava il lavoro, che lì fosse pericoloso o micidiale se ne sbatteva. È morto Crippa Giovanni, poi Franco Camporeale, poi Megna, insomma a distanza di cinque, sei anni son morti più di dieci. In un reparto di ventisei persone son morti in diciannove, e quattro stiamo combattendo la morte.
Chi ha vissuto a Sesto San Giovanni si ricorda il rosso sopra i tetti a rombo delle fonderie, aperti di notte per ripulire gli stanzoni, e il villaggio Falk, di case per gli operai vendute con la cessione del quinto dello stipendio. Si ricorda la metropolitana che non c’era e i cortei che andavano a piedi fino al confine con Milano per raggiungere il concentramento. E anche gli anni della crisi, le scuole del Parco Nord con la colletta per i figli dei cassintegrati, le biblioteche in ogni quartiere, e l’orgoglio un po’ stupido di non essere Cinisello o Bresso ma la “Stalingrado d’Italia”. C’era lo stabilimento del Campari, con la villa e il bellissimo giardino chiusi da muri in cemento con i cocci di vetro perché non si scavalcassero, e una follia di targhe per i partigiani uccisi dai fascisti, la Villa Ghirlanda sede dell’Anpi e il palazzo del comune disegnato da Bottoni (ma nessuno lo sa) e fotografato nei manuali per architetti. Per Sesto passano quelli che dalla Brianza vanno a Milano, ma difficilmente ci si ferma perché la sera c’è poco da fare. Non ci sono grandi negozi che facciano concorrenza o discoteche o ristoranti da preferire a quelli del capoluogo e a Sesto non è nato nessuno di famoso.
Io non chiedo niente, chiedo giustizia, per me e per i familiari dei miei compagni. È chiaro, dopo che han visto i morti, han preso questo reparto e l’han fatto sparire. Quando gli americani hanno portato la macchina c’era un mio capo, che adesso sta male, sta malissimo, un certo Gobbo, che gli ha chiesto come mai la vendessero. Gli han risposto che finalmente se ne sbarazzavano. È chiaro, l’avranno pagata una fesseria. A loro interessava il lavoro, tanto anche se muoiono gli operai non è una grande mancanza. Io ho un linfoma maligno, non so chi devo ringraziare, ho avuto vari interventi ma voglio viverci con questo tumore, a tutti i costi. Ho visto morire i miei colleghi, e ancora continuano. L’ultimo è morto due settimane fa, il Morano. Perché lì oltre all’amianto - adesso l’amianto fa paura - era tutto l’insieme. Morano era un molatore, ma c’erano gli oli bruciati, il cromo, il nichel, fusi, polverizzati. Diciamo l’amianto, ma era il lavoro a ucciderci. Poi, tanto per completare, l’ex Breda Fucine, che è diventata Breda Energie, m’aveva anche sbattuto fuori in cassa integrazione. Meno male che il privato che ha comprato la Breda, m’ha fatto il passaggio diretto e mi ha assunto come custode; perché io devo ancora finire i miei trentacinque anni di lavoro, lavoro dipendente, per andare in pensione.
Nessuno dei lavoratori della Breda ha finora ottenuto la qualifica di lavoro usurante. A nessuno dei famigliari dei morti è stata riconosciuta una pensione. Il 12 luglio il comitato dei malati e dei famigliari ha posto una lapide per gli oramai trentuno lavoratori morti di tumore. Ma si tratta di una parte. Moltissimi degli operai venivano da fuori e sono tornati a casa, e non è possibile sapere come stiano. Una dirigente della Ussl di Sesto si sta dando da fare. Per legge può richiedere le cartelle mediche in giro per tutta Italia, ma ha bisogno di conoscere nome, cognome e residenza. Ci vorrebbe quindi l’elenco completo, ma la Breda non molla i libri delle assunzioni e i mansionari, e allora si procede a tentoni, cercando di ricordare dove andasse a trovare i parenti quello che ti stava accanto vent’anni prima al tornio, come diavolo facesse di cognome, o se qualcuno lo sente ancora. Il pretore signora Vigna, ha in mano una denuncia. Per strage sono stati denunciati i dirigenti della ex Breda che hanno ricevuto il rapporto dello Smal e non ne hanno fatto nulla. Per strage l’Efim, proprietario della Breda, per concorso. Per omissione in strage i sindacalisti responsabili che a conoscenza degli effetti letali di quel ciclo produttivo non hanno fatto quel che dovevano. La legge italiana prevede per chi svolge un lavoro pericoloso una diminuzione degli anni di versamenti pensionistici pari al cinquanta per cento. È una norma statistica, non un principio di classe; dove sul lavoro si rischia la vita è sufficiente la metà dei contributi perché parte dei lavoratori non arriverà mai all’età pensionabile. Spetta all’Inps accogliere le domande di riconoscimento, che dev’essere cura del singolo lavoratore compilare. Se fossero state accettate le prime richieste degli assunti al reparto aste della Breda oggi avremmo centinaia di riconoscimenti a Sesto, migliaia a Monfalcone, Taranto, Torino. E non solo, perché se fosse riconosciuta la pericolosità di quelle mansioni, dato che le saldature vengono a tutt’oggi eseguite in altro modo, e dato che già nel 1978 l’ente competente aveva segnalato la nocività di quei reparti, che cosa dovrebbero rispondere coloro che decisero lo stesso di tenerlo in funzione?
È difficile ricostruire la storia. Generalmente uno muore e tende a nascondere la malattia; non la vede mai come un fatto sociale. Ci vuole una voce comune, un’organizzazione perché vengano fuori e ti raccontino quel che hanno subito. Abbiamo potuto cominciare a contare i morti solo quando i familiari o gli amici avevano sentito da qualche parte del comitato e sono venuti a trovarci. Io sono nato a Noicattaro, un paesino in provincia di Bari. In casa eravamo in undici, mio padre era custode comunale, mia madre una casalinga. A me piaceva lavorare, avevo buona volontà. Ho fatto il muratore, ho aiutato i pescatori, anche il contadino ho fatto perché Noicattaro è un centro dell’uva da tavola, l’uva “regina”; ma il lavoro era quello che era e ho preferito emigrare. Ho preso il treno, da solo, quando davvero si viaggiava con le valigie di cartone e per i primi tempi mi ha ospitato uno del mio paese, Spagnolo si chiamava. Sono arrivato a Cologno e mi ricordo benissimo quando vidi il metrò che dissi: sono matti, il treno sotto terra. Però erano i tempi belli. Io non vado a sputare nel piatto dove mangio. Alla Breda ho dato, però ho anche avuto; ai pendolari, a qualcuno, davano la casa. Dopo sposato io ho avuto la casa Breda, pagavo l’affitto ma basso, e quando la fabbrica ha chiuso ce le hanno vendute le case, e ci abitiamo ancora adesso. A loro faceva comodo avere gente che lavorasse, che avesse buona intenzione di lavorare. Quando sono venuto a Milano io non conoscevo neppure che cosa fosse la pinza, quando m’hanno portato in forgia per me era tutto da imparare. Milano era come fosse l’America e volevo vederla. Poi ci sono rimasto. In sostanza non è che stavo male, io la malattia l’ho scoperta nel ‘92, però faceva impressione vedere come si lavorava, mi dicevo: ma possibile, ci si lavora così a Milano? Credevo che non ci dovessero essere come giù nel meridione, in Sicilia, i padroni dietro, invece m’ha deluso la fabbrica. Ho dovuto prendere la mia ragazza da giù perché mi sentivo solo. Subito mi sono sposato e abbiamo costruito una famiglia; il lavoro c’era, la casa l’avevo, ed era quello il significato, di crearmi una famiglia.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 1998
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