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Home ›Il crollo dell’Albania e l’imperialismo italiano
Nel volgere di pochi mesi la situazione in Albania è precipitata. Colpito dalla gravissima crisi delle società finanziarie, le quali hanno dilapidato il 90% del risparmi nazionale, lo stato albanese si è completamente dissolto sotto i colpi di una ferocissima guerra civile.
Nel numero di febbraio di Battaglia, trattando della truffa delle società finanziarie, avevamo scritto che il presidente democratico Berisha difficilmente sarebbe stato in grado di risarcire i risparmiatori e infatti la promessa di voler rimborsare i truffati a partire dal cinque febbraio è rimasta, come era facilmente prevedibile, lettera morta. Troppe le difficoltà economiche del paese, aggravate dal totale abbandono del proprio apparato produttivo, per pensare che il governo potesse accollarsi l’onere di risarcire i risparmiatori truffati.
Dopo le prime ondate di manifestazioni, le promesse presidenziali avevano riportato una relativa calma nel paese. Quando la sensazione che nessun rimborso sarebbe stato fatto si è trasformata in certezza, le proteste sono riprese con rinnovata violenza. Un’onda lunga di ribellione proveniente dalle città meridionali ha spazzato in pochissimi giorni tutto l’apparato statale: caserme vuote, esercito e polizia disciolti, navi militari con bandiera bianca che si consegnano alla marina italiana, intere città sotto il controllo di bande di rivoltosi, fuga in massa dalla guerra civile verso le coste italiane, assenza totale di una forza governativa.
Nella storia recente del capitalismo mondiale, nonostante la virulenza delle crisi politiche ed economiche, lo stato, però, era sempre riuscito a rimanere in piedi come ultimo baluardo della conservazione borghese. La crisi dei paesi dell’ex blocco sovietico ne è per esempio una dimostrazione e nelle vicende che hanno portato al crollo dell’Urss e dei paesi satelliti, la presenza dello stato quale garante del capitale non è mai venuta meno né mai è venuta meno l’azione centrale del governo e la presenza dell’apparato militare e poliziesco. Non solo: grazie ad una sottilissima opera di trasformismo politico, alla guida del nuovo che avanza sono riusciti a collocarsi quasi sempre gli stessi uomini della vecchia nomenclatura del potere.
Nel caso albanese invece sono venute meno le strutture portanti dello stato. Le più importanti città dell’Albania sono, nel momento in cui scriviamo, ancora in mano ai comitati cittadini dei rivoltosi e per molti giorni il paese è stata teatro di lotte tra bande, alcune delle quali hanno fatto della razzia la loro ragione d’essere. Gli scontri tra bande, che hanno distrutto quel minimo di apparato produttivo rimasto ancora attivo, sono stati numerosi e violentissimi. Tra le vittime illustri di tale distruzione anche gli “impavidi” imprenditori italiani. Questi che prima della crisi osannavano gli operai albanesi per la loro alacrità e per i loro bassissimi salari, ora invocano l’aiuto del governo italiano affinché per difendere i loro investimenti dagli assalti dei rivoltosi.
Dalle ceneri dello stato borghese purtroppo è emersa soltanto una guerra di tutti contro tutti, materializzando quella barbarie che Marx aveva previsto nel Manifesto. Quando una società entra in crisi le alternative sono due: o la classe rivoluzionaria, il proletariato, riesce ad esprimere il suo programma politico e si batte per la nascita di una nuova formazione sociale, quella socialista, oppure la società precipita lentamente verso forme diffuse di barbarie. In Albania, vista la totale assenza dalla scena politica del proletariato come classe autonoma, come classe in sé, è accaduto proprio questo.
Da sempre abbiamo ribadito che anche le crisi più acute del capitalismo possono essere ricondotte nell’alveo della conservazione borghese se manca la guida politica del proletariato (il partito); il caso albanese dimostra ancora una volta che il partito di classe non è un semplice capriccio intellettualistico, ma lo strumento fondamentale per guidare la lotta di classe dando ad essa le giuste parole d’ordine anticapitalistiche. Senza avanguardie rivoluzionarie capaci di lavorare incessantemente nella classe e per la classe, fenomeni come quelli albanesi purtroppo sono destinati a ripresentarsi sempre più spesso in futuro, con incalcolabili danni per la ripresa della lotta di classe su scala mondiale.
La disintegrazione di uno stato borghese è comunque fenomeno sociale di portata storica che, inquadrato nei nuovi processi di globalizzazione dell’economia, presenta elementi preoccupanti per il capitalismo mondiale. Se poi avviene nel cuore dell’Europa, sempre più impegnata a dar vita all’area economico-monetaria più importante del pianeta, la preoccupazione è doppia eppure la borghesia europea e italiana sono riuscite, grazie all’assenza di un preciso riferimento di classe, a trasformare la bomba rappresenta-ta dalla intensificazione della spinta alla emigrazione in un pretesto per giustificare il proprio intervento militare in Albania. È bastato che qualche migliaio di profughi del paese delle aquile si riversasse sulle coste pugliesi perché si scatenasse un feroce attacco razzista contro “l’invasore” albanese. I mezzi d’informazione si sono incaricati di trasformare migliaia di profughi in fuga dalla fame e dalla guerra in luridi criminali da espellere con qualsiasi mezzo; mentre tutte le forze parlamentari hanno posto l’accento sulla necessità di fermare l’ondata migratoria intervenendo nel luogo d’origine e quindi hanno caldeggiato la costituzione di un corpo di spedizione europeo. La stessa Rifondazione comunista, pur non appoggiando l’intervento diretto dell’esercito italiano, si è dichiarata favorevole ad un intervento militare guidato da una delegazione europea (vedere il manifesto del 3 aprile 97). Il blocco navale italiano e l’affondamento di una nave carica di profughi, al di là delle responsabilità specifiche della marina militare italiana, sono state proprio la ovvia e logica conseguenza di questo clima creato per giustificare l’intervento armato che ufficialmente dovrebbe servire da copertura alle operazioni di distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione civile mentre in realtà mira a proteggere gli interessi del capitale europeo e italiano in particolare che in questi ultimi tempi si era riversato in Albania attratto dai bassi salari e dall’assenza di qualunque limite allo sfruttamento della forza-lavoro. Purtroppo, al canto delle sirene dell’imperialismo italiano il proletariato finora non è stato politicamente in grado di opporre un proprio progetto rivoluzionario e benché Il crollo dello stato albanese e la successiva fuga in massa della popolazione siano chiaramente la conseguenza della criminale attività speculative delle società finanziarie a piramide, sue consistenti frange si sono lasciate irretire dalla più becera propaganda razzista e nella più miserabile guerra fra poveri. Una conferma, una tragica conferma di quanto sia urgente e necessaria la ricostruzione del partito rivoluzionario. Senza partito di classe non solo non c’è rivoluzione socialista, ma solo l’inevitabile trionfo degli interessi dell’imperialismo e perciò della barbarie.
LPBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #4
Aprile 1997
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