Facciamo come l’America - Finanziarizzazione dell'economia e affamamento del proletariato

Nell’epoca del dominio incontrastato del capitale finanziario e in assenza di vincoli alla circolazione dei capitali, almeno nel breve-medio periodo, i cosiddetti fondamentali dell’econ-omia non sono più i principali parametri di riferimento per la determinazione delle quotazioni delle valute. A partire dal 1982, con la legalizzazione negli Stati Uniti delle opzioni su di esse, il mercato dei prodotti finanziari è stato letteralmente sconvolto e con esso tutte le regole che in precedenza assegnavano esclusivamente agli stati la gestione della massa monetaria.

Oggi, i grandi gruppi monopolistici, i Fondi-pensione e le grandi banche, hanno il potere, mediante la creazione e la compravendita dei prodotti legati alle opzioni sulle valute, di intervenire sulla stessa dimensione della massa monetaria e quindi di determinarne le oscillazioni di valore. Chi controlla le quantità maggiori di una moneta ha in mano anche il potere di deciderne le quotazioni. Nel 1987, il finanziere Andy Krieger realizzò cospicui profitti vendendo allo scoperto, grazie alle opzioni sulle valute, l’intera massa monetaria della Nuova Zelanda.

Il fatto che il dollaro resti una moneta forte - nonostante il gigantesco debito pubblico, la disoccupazione (quella vera, non quella delle statistiche false dell’Oil) a due cifre e un disavanzo strutturale delle bilancia commerciale - lo si deve unicamente al potere dei grandi gruppi finanziari statunitensi, soprattutto i Fondi-pensione e le banche, in grado di muovere, in un secondo, una quantità di valuta, espressa in dollari, decine di volte maggiore di quella che riescono a muovere tutte le banche centrali dei paesi Ocse messe assieme. Nell’epoca della globalizzazione finanziaria è il potere dei grandi gruppi monopolistici che si impone e non la libera concorrenza. Dollaro, marco e yen dominano perché sono le valute di riferimento della maggior parte della massa monetaria mondiale. I popoli - come chiama Zucconi il proletariato mondiale - semplicemente subiscono le conseguenze di questo potere.

Rimaniamo in Italia e prendiamo per esempio la Fiat. Nel 1995, il gruppo torinese realizzò, grazie alla lira ultra-svalutata, qualcosa come duecento miliardi di lire di profitti in più rispetto a quelli che avrebbe realizzato se la lira avesse avuto una quotazione più vicina a quella che era ritenuta, in via teorica, la più vicina alla realtà dei valori in campo. Ma a un certo punto, la prolungata svalutazione ha determinato un incremento della crescita del già gigantesco debito pubblico fino al limite di una pericolosissima crisi finanziaria, che avrebbe travolto tutto e tutti a cominciare dalle imprese di medie e piccole dimensioni con scarse possibilità di autofinanziamento. A una quotazione di 1500 lire per marco, come si andava prospettando, la stessa Fiat rischiava dei grossi contraccolpi. Si rese quindi necessaria una svolta nella politica monetaria tutta giocata sugli alti tassi di interessi per attirare capitali e sui tagli alla spesa pubblica favorendo così le spinte alla rivalutazione provenienti sia dall’interno sia dall’estero, in particolar modo dalla Francia e dagli altri paesi europei concorrenti che non riuscivano a competere con il made in Italy avvantaggiato dalla lira molto debole.

La risultante di questa duplice spinta al rialzo è stato un recupero di circa il 30 per cento delle quotazioni della lira rispetto alle maggiori valute europee e il suo ritorno nello Sme.

Ovviamente i costi, sia della svalutazione che della rivaluta-zione, sono stati scaricati sui lavoratori italiani che hanno pagato con la riduzione del valore dei salari reali e con ulteriori tagli a pensioni, sanità e assistenza sociale in generale. Ma negli ultimi tempi il panorama, sia nazionale sia internazionale, è di nuovo mutato e tendono a prevalere le spinte a un riaggiustamento al ribasso della quotazione della moneta italiana.

La Germania per arginare l’emorragia di capitali che da qualche tempo l’ha colpita a favore del dollaro e del franco svizzero avrebbe dovuto rialzare i tassi di interesse a breve; ma poiché ciò avrebbe comportato un’ulteriore perdita di competitività per la sua industria già in difficoltà, ha sfruttato il cosiddetto effetto-annuncio: lasciando capire che era sua intenzione far slittare la nascita della moneta unica europea e ha provocato uno spostamento di capitali dalla lira verso il marco ritenuto, in quanto valuta dominante in Europa, un lido certamente più sicuro. La Germania così facendo ha sfruttato al meglio quel clima di incertezza che regna attorno alla moneta unica europea e ha ottenuto il rialzo delle quotazioni del marco senza alzare i tassi a breve.

Ma la conseguente svalutazione della lira non è stata, come si lascia credere, una sciagura nazionale. Per la Fiat, per esempio, la svalutazione è come la manna dal cielo.

Nel 1996, La Fiat è riuscita a distribuire ai suoi azionisti lo stesso dividendo dell’anno precedente soltanto perché ha realizzato importanti entrate cedendo quote di partecipazioni azionarie in attività ritenute non strategiche. Dalle attività industriali vere e proprie non ha cavato un ragno dal buco nonostante abbia automatizzato tutto ciò che era automatizzabile e abbia un costo del lavoro fra i più bassi al mondo. Non essendo immaginabile, a breve termine, una nuova ristrutturazione industriale capace di far crescere in modo significativo la produttività del lavoro, è evidente che nel 1997, senza il concorso di fattori extra-economici esterni a lei favorevoli, le sarà difficile fare profitti in misura soddisfacente. Un primo aiuto glie lo ho dato il governo con l’incentivo alla rottamazione e il secondo se lo è dato da sola dando una mano alle spinte alla svalutazione della lira provenienti dalla Germania. Il meccanismo, d’altra parte è molto semplice: basta trattenere nelle banche estere i ricavi delle espor-tazioni ritardandone il cambio in lire. Così facendo sui mercati valutari diminuisce la domanda di lire proprio quando aumenta quella delle altre valute. Poiché nella situazione della Fiat si trova tutta la grande industria e le imprese che realizzano la maggior parte dei loro ricavi dalle esportazioni, il movimento al ribasso ha assunto dimensioni considerevoli e comunque capace di riportare la quotazione della lira contro il marco intorno alle mille lire cioè a quel livello che la Confindustria non ha mai nascosto di ritenerene fosse il più confacente agli interessi dei suoi associati.

Con il marco intorno alle mille lire, infatti, le imprese italiane, che esportano soprattutto nell’area del marco, centrano contemporanea-mente almeno tre obiettivi:

  1. realizzano un extra-profitto pari alla maggiore quantità di lire che riusciranno a ottenere convertendo i capitali trattenuti all’estero alla quotazione attuale rispetto a quella che avrebbero ottenuto se li avessero convertiti quando con un marco si ottenevano 970-980 lire;
  2. riconquistato competitività sul mercato internazionale;
  3. riassorbono gli aumenti salariali concessi ai metalmeccanici con l’ultimo contratto.

Tenuto conto che la Banca d’Italia ha considerevoli riserve in valuta estera con cui avrebbe potuto contrastare le manovre ribassiste e non lo ha fatto, è evidente che il governo ha voluto favorire la svalutazione forse per utilizzarla come contropartita da offrire alla Confindustria in cambio dell’anticipazione dell’im-posta sul trattamento di fine rapporto (Tfr).

In ogni caso, la svalutazione della lira e la rivalutazione del marco sono state il frutto di spostamenti del capitale finanziario da una valuta all’altra indipendentemente dai cosiddetti fondamentali delle due economie reali.

Il fatto è che la caduta del saggio medio del profitto, determinata dalla espulsione di quote crescenti di forza-lavoro dai processi produttivi, si fa sentire con sempre maggior forza e diviene sempre più difficile compensarla con l’incremento del grado di sfruttamento della forza-lavoro spinto già a limiti estremi oltre i quali c’è solo la fabbrica intera-mente automatizzata e perciò la fine dello stesso capitalismo che in tanto è tale in quanto sfrutta forza-lavoro.

La realizzazione di quote crescenti di extra-profitto ha assunto quindi una valenza strategica e tutto quello che accade nel mondo della politica dell’economia, della finanza e del lavoro è il frutto della lotta accanita per la conquista di fette sempre più grandi di rendita finanziaria quale strumento di compensazione della diminuzione tendenziale del saggio medio del profitto. Il sostegno alla nascita di monopoli sempre più grandi; la spinta all’aggregazione di aree valutarie omogenee di dimensioni almeno continentali (moneta unica europea, NAFTA ecc.) e quella, opposta, alla separazione delle aree più forti da quelle più deboli, obbediscono tutte alla stessa esigenza: incrementare l’extra-profitto.

Gli economisti borghesi pensano che questa sia addirittura una forma di produzione di plusvalore, anzi la forma specifica del moderno capitalismo. Ritengono che sia il movimento del capitale che genera la ricchezza e reclamano per esso la più ampia libertà di azione. Ma in realtà essa è solo una forma di appropriazione del plusvalore estorto al proletariato mondiale e quindi perché sia cospicua deve necessariamente accompagnarsi con la tendenza a ridurre il valore della forza-lavoro fino a farlo coincidere con il suo puro e semplice costo di mantenimento animale e di riproduzione. Come ci si è avviati a fare in America.

gp

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.