Alcune considerazioni sulla crisi economica dell'imperialismo

La crisi economica nel campo imperialista, che da qualche tempo andiamo osservando, ha avuto degli sviluppi d'ordine qualitativo e quantitativo... Cerchiamo, con queste considerazioni, di soffermarci su tali sviluppi, senza, peraltro, aver la presunzione di esaurire l'argomento. Lo studio della crisi imperialista comporta una vasta problematica che insolite considerazioni non possono, di certo, risolvere. Quello che, invece, è nell'intenzione, e cioè dare l'avvio ad una impostazione della problematica, speriamo incontri un corrispondente impegno. Da troppe parti si è scritto e parlato sulla crisi economica che oggi si manifesta, ma quasi sempre è mancato il tentativo di qualificare e caratterizzare quell'insieme di movimenti economici che, in fondo, costituiscono la crisi stessa. Per spiegarci meglio è necessario fare una premessa strettamente teorica.

Se la crisi dell'imperialismo obbedisce fondamentalmente a determinate leggi o tendenze, attraverso le quali viene individuata, ciò non vuol dire che essa abbia un corso rettilineo e si sviluppi su linee prefissate astrattamente nella teoria. La teoria dell'imperialismo come fase suprema del capitalismo, al pari della teoria marxista del plusvalore che ne è la base, poggia su di un alto grado di «astrazione» scientifica; è ovvio che, per il particolare carattere che assume il concetto di «astrazione» nella concezione generale del materialismo storico, tali teorie non perdono il loro valore di effettiva comprensione della struttura economica ma, anzi, lo acquistano grazie al metodo formale di «astrazione» con cui furono enunciate. Questo è messo bene in rilievo nei testi classici della teoria, dal «Capitale» all'«Imperialismo». Non comprenderlo significa lavorare all'analisi di una particolare situazione economica in modo formalistico, dottrinario e burocratico. Ad esempio, l'analisi della crisi nel mondo imperialistico rivela, innanzitutto, il manifestarsi di quei caratteri generali teorizzati nelle trattazioni sui capitalismo monopolista. Anche nell'attuale crisi noi troviamo questi caratteri generali. Ma l'esistenza di tali caratteri non basta a definire qualitativamente e quantitativamente la crisi. La costatazione evidente della crisi imperialista non è di per sè una valutazione esatta: può essere una approssimazione ad una reale definizione della vastità e dei limiti della crisi. Infatti abbiamo parlato di «qualità» e di «quantità» e ciò è doveroso per l'orientamento della minoranza rivoluzionaria. Conoscere questi due aspetti fondamentali della crisi significa avere una sufficiente conoscenza delle indicazioni oggettive a cui adeguare la tattica e la strategia della rivoluzione.

Aspetti qualitativi: crisi di sottoconsumo

Gli sviluppi che la crisi imperialista ha assunto in questi ultimi mesi pongono una questione di primario interesse per la sua definizione qualitativa. Prescindendo da altre considerazioni d'ordine teorico, che andrebbero maggiormente studiate ed esposte, potremmo definire i sintomi dell'attuale crisi economica, sintomi della crisi di sottoconsumo. Il meccanismo essenziale della crisi di sottoconsumo si svolge nel fatto che i consumi delle masse non aumentano nella stessa misura con cui aumenta la produzione, poiché il capitalismo, nella sua sfrenata corsa all'accumulazione, si appropria una parte sempre più sensibile del prodotto sociale. Dunque la crisi di sottoconsumo è direttamente collegata al processo di accumulazione e ne è una conseguenza. Esaminiamo attentamente la crisi odierna: scorgeremo che i sintomi della crisi di sottoconsumo si manifestano anche nelle metropoli imperialiste. Anzi possiamo definire lo svolgimento di detta crisi come il generalizzarsi del sottoconsumo dai paesi satelliti alle metropoli imperialiste.

Nel periodo imperialistico, a differenza del primo periodo capitalistico, la crisi di sottoconsumo è determinata dalle relazioni economiche internazionali. L'espansione economica imperialista, per il fatto stesso che trasporta su scala mondiale le contraddizioni economiche dei paesi più sviluppati industrialmente, agisce in modo negativo su questi paesi riportando in modo più acuto e vasto le contraddizioni che avevano determinato l'espansione stessa. Il fenomeno del sottoconsumo può essere preso come esempio. Però è bene dire che non è sufficiente a spiegare tutta la crisi, per varie ragioni. Innanzitutto perché la crisi di sottoconsumo, che è normale nel sistema di produzione capitalista, è aggravata dai piani di lotta tra le potenze imperialiste, dal loro riarmo, dalla loro economia di guerra. Ma prima di esaminare questo aspetto vediamo cosa dobbiamo considerare per teoria del sottoconsumo nella sua enunciazione marxista. In sintesi possiamo dire che il compito effettivo della teoria del sottoconsumo consiste nel dimostrare che è inerente al capitalismo una tendenza a espandere la capacità di produrre beni di consumo più rapidamente della domanda di beni di consumo. La tendenza può manifestarsi in due modi. Nel primo, la capacità di produzione è effettivamente aumentata ed una crescente quantità di beni appare sul mercato, la cui domanda non può assorbire l'offerta, e di conseguenza si ha la crisi cosiddetta di «sovrapproduzione». Nel secondo si ha il caso di risorse produttive che rimangono inattive e non vengono utilizzate per non creare una eccedenza di domanda in un mercato incapace di equilibrarla. Quindi si ha una forma particolare di crisi che è il ristagno della produzione. Se osserviamo la situazione economica statunitense scorgiamo che attualmente è indirizzata su questa seconda forma. Come già avevamo premesso la teoria ha un valore fondamentale che non può, però, descriverci a priori il corso della crisi di sottoconsumo. Lo sviluppo imperialistico del capitalismo ha portato, tra le altre conseguenze, l'accentramento politico ed economico nelle mani dello Stato e ha permesso, quindi, al capitalismo di esercitare le naturali forze contrastanti la tendenza al sottoconsumo in una maniera più coordinata e più pressante. Prendiamo in esame solo due di queste forze, cioè quelle che maggiormente interessano la presente trattazione:

  1. Lo sviluppo industriale. Durante il processo di industrializzazione tutto il nuovo capitale accumulato è assorbito e non si ha alcuno incremento corrispondente nella produzione di beni di consumo. Solo al termine di questo processo si sarà ampliata notevolmente la capacità di produrre beni di consumo. Ma siccome la sostanziale compiutezza del processo d'industrializzazione in condizioni capitalistiche non porta a un grande aumento del consumo sociale ma limita fortemente una delle più potenti forze contrastanti la tendenza al sottoconsumo, questa gioca nuovamente il suo ruolo predominante È ciò che accade nelle metropoli imperialiste, Stati Uniti e U.R.S.S., dove malgrado l'accelerata industrializzazione la crisi di sottoconsumo si manifesta evidente. Le misure adottate dal governo americano e dal governo sovietico, su questo piano, si equivalgono. Mentre negli U.S.A. i beni di consumo vengono immagazzinati o distrutti, nell'U.R.S.S., dove la domanda dei beni di consumo era compressa dalla politica statale sui salari per forzare l'industrializzazione nella produzione di beni strumentali, la tendenza al sottoconsumo si manifesta in una misura tanto acuta da rallentare fortemente l'industrializzazione pesante. Non si creda che il nuovo corso malenkoviano sia ispirato solo da considerazioni politiche: alla base di esso vi è l'effetto economico del sottoconsumo come risultante della legge capitalistica della accumulazione. Né si ritenga che il sottoconsumo nel periodo imperialista sia solo espresso da una offerta di beni di consumo che non trova soddisfazione nella domanda del mercato delle masse salariate. Il sottoconsumo, nello stadio capitalistico di Stato, si manifesta pure, grazie ad altre forze contrastanti, come la politica statale, la sua tendenza, nella incapacità della produzione a soddisfare il consumo sociale delle masse. Come acutamente diceva Lenin: «La missione storica del capitalismo... consiste nello sviluppo delle forze produttive della società: la sua struttura impedisce l'applicazione utile di questi risultati tecnici a vantaggio delle masse popolari».
  2. Spese dello Stato. Possono essere considerate come una categoria di consumo improduttivo, ma solo per quella parte che non sia impegnata in attività produttive per lo scambio. Infatti per queste seconde spese si può dire che esse contribuiscono a produrre plusvalore in quanto lo Stato agisce come capitalista. Quando invece lo Stato spende per svolgere le sue ordinarie attività burocratiche e per una produzione di riarmo si verifica una funzione uguale al consumo; lo Stato consuma infruttuosamente. In questo caso le spese dello Stato sono una forza contrastante la tendenza al sottoconsumo. Vediamo in pratica come una lieve riduzione di queste spese abbia agito negativamente sul relativo equilibrio dell'economia americana e come una diminuzione delle spese militari nell'U.R.S.S. abbia coinciso con la svolta economica sovietica. Vi è da notare, però, che in entrambi i paesi le spese militari assorbono ancora una buona parte del reddito nazionale e costituiscono una forte e rilevante categoria di consumo improduttivo. Per l'esame delle forze contrastanti la tendenza al sottoconsumo dobbiamo mettere in rilievo che le spese dello Stato costituiscono la forza sempre più dominante; specie se si tiene conto che, nel capitalismo di Stato principalmente e nell'economia monopolistica indirizzata sempre più verso il dirigismo statale, nell'uno sono ormai una forza unica e nell'altra tendono ad unificarsi. Ne deriva, quindi, che le forze contrastanti la tendenza al sottoconsumo non agiscono più come leggi spontanee ma sono utilizzate e manovrate dal potere statale. Quindi il problema della crisi di sottoconsumo non deve essere visto come l'esplosione spontanea di un determinato e naturale fenomeno economico, ma come il maturarsi, in forme tradizionali e in forme nuove, di un insieme di contraddizioni che una direzione economica cerca di manovrare, di deviare, di utilizzare, di arrestare fino all'ultimo Anzi, possiamo dire che tale direzione cerca di rendere meno evidenti alcuni aspetti della crisi, di mimetizzarne degli altri, di alterarne, nel sottovalutare o nel sopravalutare, degli altri ancora, e ciò ai fini di una determinata politica economica. Quindi l'analisi critica rivoluzionaria non deve essere indotta in errore da dati artificiosi ma deve andare a fondo ancorandosi alle leggi fondamentali della critica marxista sempre più valide in un mondo diviso tenacemente in classi.

Aspetti quantitativi: l'aggravamento della crisi

Abbiamo visto un aspetto qualitativo della crisi. Con ciò non si vuol dire che si siano esaminati tutti gli aspetti qualitativi e gli infiniti problemi ad essi collegati. Una analisi definitiva comporta una ampia discussione che andrebbe fatta col tempo. Cerchiamo di vedere gli aspetti quantitativi a cui alludevamo all'inizio. È implicito che facciamo questa distinzione solo per comodità di analisi, dato che quantità e qualità si fondono nella complessità dei fenomeni economici internazionali presenti nella società contemporanea. Vogliamo esaminare, tuttavia, gli aspetti quantitativi alla luce dei problemi attuati e di prospettiva. Genericamente si dice che la crisi mondiale dell'imperialismo ha continuato ad aggravarsi. In che misura? È necessario indicare il grado di estensione e di aggravamento della crisi, poiché non è sufficiente l'indicazione che la crisi ha assunto una dimensione mondiale. Sempre la crisi raggiunge dimensioni mondiali: ciò che va precisata è la proporzione quantitativa e cioè in che misura sono coinvolte e sconvolte le strutture nazionali, in che grado vengono rotti o modificati o radicalmente mutati i rapporti economici internazionali, di carattere bilaterale e multiplo.

Anticipando una conclusione, se obiettivamente esaminiamo queste particolarità potremo rispondere che non si può ancora parlare di crisi generale, sebbene dall'identificazione della crisi iniziale si sia accentuata la tendenza di quest'ultima ad aggravarsi in crisi generale. Su questo problema s'impone una questione di vitale interesse teorico e che va collegata a questioni lasciate insolute dall'analisi qualitativa. Per crisi generale dell'imperialismo si deve intendere la crisi definitiva di uno stadio economico della società classista che, non solo, non ha più possibilità di soluzione pacifica ma che, per il fatto di essere crisi generale, porta in modo preponderante la soluzione rivoluzionaria? Rispondere a questa questione significa rispondere definitivamente alla questione del crollo del capitalismo. Già nel concetto di crollo del capitalismo è insito un difetto meccanicistico. Può crollare un sistema per i soli suoi fattori interni? Se si concepisce dialetticamente questo problema la risposta non può essere che affermativa. Infatti il proletariato agisce sulla base di fattore economico prima di divenire coscienza e volontà collettiva rivoluzionaria protesa a trasformare la crisi in capovolgimento di sistema economico. Dunque s'intende che l'atto rivoluzionario è prodotto da fattori interni della crisi. Ma anche questa è un'asserzione schematica in quanto si ammette che la crisi provochi inevitabilmente la volontà rivoluzionaria del proletariato, e ciò è gratuito storicamente. Proprio sul campo storico sono necessarie alcune considerazioni. In primo luogo, storicamente non si hanno esempi di crisi generale della misura che noi prospettiamo. Si ebbero crisi generali nel primo dopoguerra e nel 1929, ma dato che prendiamo in considerazione l'aspetto quantitativo della crisi va da sé che quelle non possono essere assunte ad esempio. In secondo luogo, l'esperienza storica può insegnare che la crisi non provoca inevitabilmente la coscienza e la volontà rivoluzionaria del proletariato internazionale. Si guardi la crisi del 1929 che, pur avendo proporzioni vaste, non provocò nemmeno tentativi rivoluzionari. Sulla formazione della coscienza e della volontà del proletariato concorrono fattori, ci si scusi il termine, «esterni», che qui non è il caso di elencare. In terzo luogo, si può dedurre che l'aspetto quantitativo della crisi è estraneo alla nostra conoscenza storica; rimane in prospettiva come il problema del crollo capitalistico. A configurare maggiormente tale prospettiva può venire in aiuto la conoscenza che abbiamo degli ultimi sviluppi strutturali, dell'immensa capacità produttiva e tecnologica delle forze di produzione, dell'ampliamento del mercato mondiale, dell'aumento relativo e assoluto della produzione, dell'accelerato sviluppo industriale avvenuto nei paesi retti ad economia capitalistica di Stato, della progressiva industrializzazione di paesi coloniali e semicoloniali ecc.: insomma degli aspetti quantitativi oggi nuovi dopo il 1929 e la Seconda Guerra Mondiale. In definitiva, non abbiamo una esatta cognizione quantitativa di cosa potrebbe significare una crisi generale dell'imperialismo dalle proporzioni senza confronti nella storia economica della società. Ma ciò non risolve il quesito che ponevamo e cioè: nella crisi generale l'imperialismo non può più ricomporsi ed inizia il suo crollo definitivo? Una possibile risposta potrebbe essere data nei seguenti termini. Considerato che il sistema capitalista ha dei limiti, come notava la Luxemburg, nella sua espansione nel mercato mondiale e che oltre questi limiti la sua crisi diviene cronica e permanente, la sua continuazione non diventerà altro che una depressione cronica, intollerabile per le masse che si vedranno costrette a trovare una soluzione rivoluzionaria di uscita. Occorre aggiungere a questa tesi che la depressione cronica non toccherà solo quei settori della popolazione mondiale che già oggi vivono in tale condizione ma si allargherà pure a quei settori, anche del proletariato industriale dei paesi economicamente sviluppati, che vivono in condizioni di un minimo benessere relativo. Si potrebbe obiettare, come faceva la stessa Luxemburg, che le lotte di classe e i conflitti internazionali «devono portare alla rivoluzione molto tempo prima che sia raggiunta la conseguenza ultima dello sviluppo economico». E questa obiezione avrebbe una validità se non comportasse una forma di fatalismo. Le lotte di classe, e i conflitti internazionali per l'estremo sviluppo a cui portano le prime, hanno una importanza enorme nella storia. Ma anche in questo caso la storia ci soccorre con la sua esperienza. A parte alcune conseguenze della lotta di classe, più operanti nel settore asiatico e coloniale, la 2a guerra imperialista non ha provocato automaticamente la rivoluzione proletaria. Provocò sì una situazione rivoluzionaria latente che fu, però, incanalata e manovrata dalle forze controrivoluzionarie occidentali e staliniste. Dunque, anche gli aspetti della depressione cronica e del crollo capitalistico vanno riesaminati più attentamente anche perché la loro interpretazione investe direttamente le prospettive della strategia rivoluzionaria. Oggi come oggi non si può esporre una loro soluzione categorica e perciò dobbiamo limitarci a lavorare per delle approssimazioni sempre più concrete. E per fare ciò occorre proseguire l'esame della situazione attuale nei fattori che contribuiscono all'aggravamento della crisi.

L'estensione della rivolta antimperialista dei popoli coloniali. Se apparentemente vi è una stasi in questa rivolta dopo l'effervescenza degli anni scorsi, si può dire che la crisi sta estendendo le condizioni obiettive antimperialiste. Ormai in tutti i paesi coloniali stanno maturando queste condizioni. Ciò va esaminato per inquadrare il ruolo delle lotte coloniali nella crisi imperialista. In generale non si può concepire rivolta coloniale antimperialista se non legandola alla crisi generale. Vi possono essere lotte coloniali, obiettivamente antimperialiste, come quelle dell'immediato dopoguerra e come quelle in corso, avvenute in periodi in cui la crisi imperialista, se esisteva, aveva minime proporzioni. Ma in tal caso queste lotte hanno, come hanno avuto, dei limiti di carattere obiettivo che impediscono la loro evoluzione di classe. Se, in certo senso, le lotte coloniali contribuiscono ad aggravare la crisi, costituendone un fattore iniziale, non possono trovare soluzione, e anche sviluppo, se la crisi non si aggrava nei paesi colonialisti e se la guida della loro azione non è saldamente legata a quella del proletariato della metropoli, all'unisono con la lotta del proletariato internazionale. In definitiva, se la crisi iniziale nelle colonie non riesce a contribuire nell'aggravare la crisi nei paesi più forti dell'imperialismo questi avranno ancora il potere d'intervenire nel settore coloniale per impedire che la lotta si sviluppi in una direzione decisamente antimperialista.

Contrasti tra i paesi capitalisti. Ci interessiamo, per ora, solo ai maggiori contrasti tra le grandi potenze del blocco occidentale, anche perché sono questi quelli che più direttamente sono legati al problema dell'aggravamento della crisi. Il peggioramento della situazione politico-sociale nei paesi chiave dell'Europa Occidentale pone all'attenzione il problema dei rapporti struttura-sovrastruttura nel periodo dell'estensione della crisi. Di certo se noi seguissimo un'analisi strettamente politica potrebbero affiorare delle considerazioni marginali che non centrerebbero il problema. In Inghilterra, infatti, dopo il fenomeno dell'opposizione bevanista ed il suo can-can pubblicitario, cosa è rimasto se non un fronte comune tra le frazioni parlamentari della borghesia per arginare la marea crescente delle rivendicazioni operaie? Troppo poco per quelli che scorgono nelle naturali divergenze politiche della classe dominante l'indice dei contrasti interni dell'imperialismo. E cosa rimarrà delle opposizioni alla CED dei parlamentari francesi? Se una considerazione si può fare sui contrasti politici in seno ai blocchi imperialisti è che tali contrasti vengono in scena uno alla volta, per turno, per dare il colore di catastrofe ad una situazione che politicamente non ha nulla di catastrofico. Anche se la direzione politica nella fase decadente dell'imperialismo subisce, più che mai, crisi e instabilità, non è in questa direzione che vanno ricercati i contrasti e le contraddizioni, che sono prevalentemente di natura economica. Paradossalmente si potrebbe dire che la situazione politica ci può spiegare poco sull'aggravamento della crisi: i rapporti tra base economica e sovrastruttura politica sono rapporti dialettici e non meccanicistici e la loro azione ha un certo grado d'indipendenza che può manifestarsi in atteggiamenti, apparentemente contraddittori, tra direzione politica e situazione economica e viceversa. I contrasti tra i paesi capitalistici vanno ricercati nella loro sede economica. Sotto questo punto di vista possiamo proprio dire che tali contrasti stanno accumulando tanti elementi da costituire un fattore importantissimo di aggravamento della crisi e, non solo, di natura tale da divenire oggetto quantitativo per l'evoluzione della crisi iniziale in crisi generale, se non a breve, a non lunga scadenza.

Arrigo Cervetto

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.