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Home ›I nodi economici della stalinismo: quinta parte
Proseguiamo con la pubblicazione del libro “La controrivoluzione”. Ecco una ulteriore puntata dedicata ai “nodi economici dello stalinismo”. Vi invitiamo a seguire la sezione del nostro sito web dedicata al Centenario della Rivoluzione Russa, dove potete trovare le parti precedenti del libro ed altro materiale… Buona lettura!
Come le forze della controrivoluzione hanno gestito il presunto scontro tra le due forme produttive
Sulla basi di questa poca chiarezza, soprattutto per ciò che concerne la definizione dell’area socialista, le forze della controrivoluzione hanno costruito la loro roccaforte.
La fascia delle attività produttive “coperta” dall’intervento dello Stato era per definizione socialista. Anche lo sviluppo delle forze produttive, in quanto controllato dagli organi governativi, era sinonimo di sviluppo verso il socialismo. Il meccanismo politico, non potendo completamente nascondere delle forme economiche mercantilistiche nell’ambito sia della produzione che della distribuzione al pari del ruolo sempre crescente del capitale finanziario, prevedeva un distinguo tra le necessità di valorizzazione dei capitali investiti, sia statali che privati, e le esigenze programmatrici del piano economico, elaborate e dirette dagli appositi organismi di Stato.
Il distinguo, inoltre, era inteso in senso compenetrativo e non disgiuntivo, dove la compenetrazione era a tutto vantaggio dell’area socialista e a scapito di quella capitalista. I due maggiori interpreti del processo erano da un lato il Gosplan (anima socialista) e dall’altro la Banca di stato (anima capitalista).
Ma in materia facciamo parlare uno dei maggiori interpreti delle vicende economiche della Russia degli anni Venti, che tanti servigi rese allo stalinismo, sino a quando “baffone” ritenne di non aver più bisogno di lui.
Nella già citata opera Dalla NEP al socialismo”, Preobrajensky teorizza lo scontro tra le due aree, con chiave interpretativa trionfalistica, imponendo ruoli e funzioni a seconda della preventiva stesura del copione
La Banca di stato doveva organizzare i rapporti capitalistici e adattarli al socialismo, completare in parte, in una nuova situazione, ciò che non era stato portato a compimento nel nostro capitalismo insufficientemente sviluppato. In seguito essa dovette porre gli elementi capitalistici sotto la direzione del socialismo, concretamente sotto la direzione del Gosplan (25).
Semplice! La rivoluzione proletaria, pur lasciata nel suo brodo da sola e senza aiuti materiali, doveva portare sino in fondo la rivoluzione democratica-borghese, dare il via allo sviluppo delle forze produttive, controllarne l’esuberanza giovanile, per poi ridurlo all’impotenza facendolo entrare, docile docile, nel recinto socialista. Come? Altrettanto semplice, risponde Preobrajensky
La Banca di stato durante la dittatura del proletariato doveva tradire il capitalismo a profitto del socialismo, impiegando metodi capitalistici. Quanto allo scopo del Gosplan, consisteva nell’adattare il socialismo che esso rappresentava ai rapporti capitalistici e commerciali che esistevano allora nel paese, sforzandosi di prenderne in mano le redini (26).
Chissà che cosa sarebbe riuscito a fare il buon Preobrajensky se in Russia, invece di resistere con le unghie e con i denti, ci fossero state condizioni interne più favorevoli ad uno schieramento rivoluzionario internazionale già funzionante. Probabilmente il socialismo sarebbe trionfato anche sulla luna.
Al fine di definire i ruoli di queste due organizzazioni – prosegue il nostro economista – che rappresentavano storicamente due tipi differenti di economia, si potrebbe utilizzare la celebre metafora di Platone – i due cavalli rappresentanti lo spirito e il corpo attaccati allo stesso carro, la Banca di Stato e il Gosplan, come un cavallo da corsa e uno da tiro, erano attaccati alla stessa telega, quindi chi conduceva l’uno, conduceva anche l’altro (27).
Bellissima immagine. È sempre suggestivo ricorrere alla mitologia per sottolineare anche i concetti più difficili. Peccato che né Platone né Preobrajensky siano in grado di chiarire sino in fondo il problema.
Dove e quando sarebbe sorta questa area economica socialista in grado di contrapporsi competitivamente con quella capitalista? Durante la rivoluzione d’ottobre? No. In quella fase della lotta di classe c’era all’ordine del giorno la presa del potere politico. Negli anni del “comunismo di guerra”? No. In quegli anni il proletariato combatteva una lotta i cui contenuti riguardavano il consolidamento del potere politico e la sconfitta definitiva della reazione grande-borghese. Sì, ci furono le nazionalizzazioni, ma come abbiamo visto in precedenza, sorretti dalle stesse dichiarazioni di Lenin, il passaggio giuridico di proprietà dei mezzi di produzione e la loro concentrazione sono una condizione necessaria al socialismo, ma per nulla sufficiente.
Nel travagliato periodo della NEP, dalla primavera del ’21 alla stesura del primo piano quinquennale? No. La NEP era sorta, per dichiarazione esplicita, per risolvere i problemi economici e politici posti dal “comunismo di guerra”, e come momento propiziatorio del capitalismo di stato. Un altro passo indietro, e non una conquista socialista, anche se necessario.
E soprattutto, dove avrebbe attecchito un primo, imperfetto, modo di produzione e di distribuzione socialista? Nel mondo agricolo-contadino? Assolutamente no. Con l’introduzione della nuova politica economica, il capitalismo, e con esso l’attività mercantilistica, prese l’avvio proprio dalle campagne, per poi passare attraverso i canali di mercato, agli altri settori produttivi. Vero è che negli anni successivi, dopo l’offensiva contro i Kulaky, presero piede nel settore agricolo forme organizzative collettivizzate a latere dell’impresa rurale individuale, quali le fattorie di stato (sovchoz) e quelle cooperative (colcos), ma in entrambi i casi si esulava completamente da rapporti di tipo socialista. Nel primo si ricadeva nella forma tipica del capitalismo di stato, nel secondo la “proprietà” collettiva della terra, dei mezzi di produzione, come quella dei prodotti, era mutata dalla proprietà privata degli stessi in una ibrida, quanto precaria, forma sociale di tipo cooperativistico-privatista.
In altri termini il colcosiano, oltre ad avere in comune i mezzi produttivi, poteva tenere per sé un appressamento di terreno, gli strumenti necessari per coltivarlo ed i prodotti di questo lavoro individuale. Dopo una prima fase di repentina espansione, nei tempi lunghi, la formula colcosiana cominciò a mostrare la corda. I produttori associati, stimolati dalla presenza del mercato, incentivavano la produzione individuale a scapito di quella collettiva, con tutte le conseguenze del caso sul piano della produttività e dello sviluppo dei colcos.
La stessa risposta vale per il settore dell’industria leggera o di trasformazione. A parte l’industria privata che naturalmente si muoveva nell’ambito del mercato in senso privatistico, anche quella dipendente dai finanziamenti e dal programma economico dello stato doveva barcamenarsi tra l’incudine e il martello. Ovvero riceveva finanziamenti dagli organi governativi solo a condizione di essere competitiva sul mercato, ed era competitiva sul mercato solo a condizione di produrre una quota di profitti sufficientemente remunerativa in rapporto al capitale investito.
Il mercato non fa distinzioni tra imprese private, statali o miste. O si è competitivi quindi remunerativi o non lo si è. O si è dentro o si è fuori, altra legge non esiste.
Rimarrebbe la grande industria, quella “socializzata”. Ma proprio in questo settore, prima e subito dopo la NEP, esistevano i problemi maggiori. Di quale socialismo si può parlare là dove più grave era l’arretratezza produttiva, più basso il livello tecnologico, accompagnato dalla penuria più nera di capitali trainanti. Tutti i passi indietro di Lenin avevano come scopo quello di aiutare i primi passi dell’industria pesante, di ricreare, anche a costo di esorcizzare il “diavolo” capitalista, le condizioni favorevoli della ripresa. Altro che area socialista in grado di competere contro il capitalismo.
Non è sufficiente avere nelle proprie mani i settori portanti dell’economia, avere il controllo totale o parziale dell’industria leggera, il monopolio del commercio del grano e l’esclusiva del commercio con l’estero, per definirsi economicamente socialista. La questione di fondo non è la “socializzazione” dei mezzi di produzione o la validità dei mezzi amministrativi di controllo, ma il rapporto tra capitale e forza lavoro. Ammesso e non concesso che nei settori produttivi direttamente gestiti dallo Stato, lo scambio di materie prime, di semilavorati e di beni strumentali, non avvenisse attraverso il mercato, e quindi non sulla base della compravendita, cionondimeno era ferramente presente il rapporto capitalistico con la forza lavoro. Nell’industria di stato come in quella privata, esistevano tutte le categorie economiche del capitalismo: capitale-salari, investimenti-produttività, mercato, profitto e calcolo economico aziendale. Di socialista esisteva solo il presupposto politico, sino a quando ha potuto fregiarsene.
Non solo nelle industrie di stato i lavoratori non percepivano in beni di consumo quanto era loro necessario o per quanto avevano prodotto, ma i salari erano calcolati sulla base delle esigenze del processo di accumulazione che a sua volta era la condizione “sine qua non” per lo sviluppo delle forze produttive.
Anche in questo caso va ricordato che in Russia, non il socialismo, ma le sue dorsali, si sarebbero potute creare solo al cospetto di una Internazionale operante che avesse la discrezionalità di comporre le “necessità” dell’arretratezza economica russa con i “problemi” di sovrapproduzione dei paesi altamente industrializzati a condizione che i secondi avessero raggiunto le conquiste politiche rivoluzionarie della prima. Solo l’internazionalismo operaio sarebbe stato in grado di comporre la gravissima frattura fra un organismo politico sorto come condizione indispensabile alla trasformazione dei rapporti di produzione ed una realtà economica impossibilitata a ricevere sollecitazioni di sorta se non quelle peculiari allo sviluppo capitalistico delle forze produttive. Questo in condizioni normali, in situazioni eccezionali, come quelle imposte dalle crisi belliche e post-belliche, la composizione avrebbe riguardato le “necessità” russe con le “disponibilità” dei paesi avanzati.
Solo allora si sarebbe potuto risolvere almeno in parte e nei settori vitali il problema della carestia, della fame, dell’industrializzazione primaria. Solo l’aiuto di derrate alimentari, sementi e fertilizzanti, impianti e tecnologia consegnati non attraverso il rapporto mercantilistico della compravendita, ma in qualità di rifornimento gratuito imposto dalla strategia internazionalista, avrebbe permesso alla Russia degli anni Venti di organizzare una prima area socialista da contrapporre a quella capitalistica. In caso contrario il programma economico scendeva di un gradino, sviluppo delle forze produttive e suo controllo nella solita attesa della rivoluzione in occidente. Tanto era nelle cose, e assolutamente non si poteva andare oltre.
L’altra ipotesi
Lo stalinismo “ortodosso” ha sempre fatto astrazione da queste problematiche. Una volta liquidato, nella sua intima essenza, la natura e la funzione dell’internazionalismo proletario, dichiarate inconfutabili le tesi del socialismo in un solo paese, della falsissima identità tra sviluppo delle forze produttive e rafforzamento del socialismo, della confusione tra statizzazione e socializzazione, ne discendeva conseguentemente che la sua “giusta” politica:
a) liquidò la classe sfruttatrice più numerosa nel nostro paese, la classe dei Kulaki, baluardo della restaurazione del capitalismo;
b) fece passare dalla strada della economia individuale, che genera il capitalismo, sulla via dell’economia collettiva, colcosiana, socialista, la classe lavoratrice più numerosa del nostro paese, la classe dei contadini;
c) diede al potere sovietico una base socialista nel ramo più vasto e indispensabile all’esistenza, ma anche più arretrato dell’economia nazionale: nell’agricoltura.
Furono così distrutte all’interno del paese le ultime basi per la restaurazione del capitalismo, e al tempo stesso furono create le nuove condizioni, le condizioni decisive che erano necessarie per la costruzione dell’economia nazionale socialista (28).
Tesi quanto mai semplice e sbrigativa. Lo stalinismo poteva riempirsi la bocca di simili conclusioni nel ’29, dopo la vittoriosa campagna contro i Kulaki, grazie alle falsità delle impostazioni iniziali. Avendo come punto di partenza la presunta esistenza di un’area socialista da sostenere ed allargare, i conti erano presto fatti. L’Ottobre bolscevico aveva creato le premesse politiche togliendo all’avversario di classe lo strumento del suo dominio, lo Stato. La guerra civile aveva portato a compimento l’espropriazione della borghesia industriale e finanziaria e dei latifondisti. Anche se la NEP aveva ricreato le condizioni per una ripresa della borghesia agraria, la riespropriazione dei Kulaki aveva cancellato qualsiasi base economica su cui il revanscismo borghese avrebbe potuto creare le condizioni per il proprio rilancio, con l’altro vantaggio di aver potuto, in sette anni di NEP, amministrare, alla faccia dei “nepmen”, un primo sviluppo dell’economia agricola come condizione necessaria del successivo sviluppo industriale. Nel paragrafo precedente avevamo visto quanto fosse falso, indipendentemente dagli esiti, il presunto scontro tra socialismo e capitalismo inteso in chiave economica. O ci si stacca da questa falsa impostazione, oppure si rimane bloccati nel pantano della controrivoluzione.
Nella complessa e difficilissima situazione sociale russa ci furono più scontri, ma non tra forme economiche tra loro antitetiche, ma tra tipi di politica economica all’interno della medesima forma produttiva.
Durante il comunismo di guerra, che di aree socialiste non ne aveva partorite, l’unica politica economica adottata fu quella delle requisizioni e della violenza di classe. Con la NEP, che di aree socialiste non ne aveva ereditate ma nemmeno create, si diede inizio ad una politica economica molto articolata che tenesse conto un po’ di tutto, ma soprattutto dello sviluppo delle forze produttive nelle forme della gestione del capitalismo di stato.
Nel periodo che va dall’inizio della NEP alla campagna contro i Kulaki sino al varo del primo piano quinquennale, lo scontro, tutto capitalistico, riguardava la resistenza che la piccola borghesia contadina ed il capitalismo privato opponevano nei confronti del capitalismo di stato, della pianificazione, e comunque della ingerenza dello stato nelle questioni economiche. Questo scontro affondava le sue radici proprio nel terreno preparato dalla NEP.
Con i primi decreti del ’21-’22, riguardanti tutti i settori produttivi più importanti, sia che fossero direttamente controllati dallo Stato che dal capitale finanziario privato, lo sforzo era quello di raggiungere nel più breve tempo possibile i livelli produttivi dell’anteguerra. Dove lo stato era in grado o costretto finanziariamente ed imprenditorialmente ad intervenire nel processo produttivo sulla base delle necessità del processo di accumulazione, andava prendendo corpo l’organizzazione del capitalismo di stato; là dove, per mancanza di fondi, di tecnologia e di capacità imprenditoriali lo Stato non poteva essere presente nemmeno nella veste di controllore, erano le istanze del capitalismo privato ad assolvere i compiti primari dello sviluppo delle forze produttive. Nel mezzo oscillava una fascia economica le cui attività imprenditoriali erano controllate, e in alcun casi determinate, dallo Stato.
In tutti e tre i settori, sia in quello statale, misto che privato, il tasso degli investimenti (agricoli e industriali), la rimuneratività del capitale, lo scambio delle merci tra i vari settori, il rapporto con la forza lavoro, non potevano che uniformarsi alle leggi del mercato.
La nuova politica economica non solo creò le condizioni base per lo sviluppo delle forze produttive, ma anche i motivi dello scontro economico.
L’altra tesi
Lo stalinismo, scimmiottando Lenin, negli anni cruciali della definizione della possibilità della costruzione del socialismo nella sola Russia, si piccava di dare soluzioni concrete a problemi reali. Il problema reale, nuovo, rispetto alle prospettive precedenti, era costituito dal fatto che la Russia era rimasta per lungo tempo troppo isolata dalla rivoluzione occidentale, subissata dai suoi problemi economici e di sviluppo. L’auspicato collegamento rivoluzionario con paesi avanzati sul piano industriale andava manifestandosi sempre meno probabile. La soluzione concreta, non potendosi esprimere all’interno del vecchio sistema, cercava al di fuori possibili sbocchi, salvando, a parole, capre e cavoli.
Prima si considerava impossibile la vittoria della rivoluzione in un solo paese, perché si riteneva che per vincere la borghesia fosse necessaria l’azione comune del proletariato di tutti i paesi avanzati o della maggior parte di essi. Oggi questo punto di vista non corrisponde più alla realtà. Oggi bisogna ammettere la possibilità di una tale vittoria, perché il carattere ineguale, a sbalzi, dello sviluppo dei vari paesi capitalistici nel periodo dell’imperialismo, che generano delle guerre inevitabili, lo sviluppo rivoluzionario in tutti i paesi del mondo: tutto ciò determina non solo la possibilità, ma l’inevitabilità della vittoria del proletariato nei singoli paesi. La storia della rivoluzione russa ne fornisce una prova diretta (29).
Ecco il fatto nuovo e la sua giusta risoluzione! Siamo in presenza, oltre ad una volgarissima contraffazione di tutto il bagaglio teorico del proletariato mondiale sin lì espresso, ad una lezione di dialettica al contrario.
La pantomima staliniana salta a piè pari tutti i problemi economici e politici della fase di transizione in un paese, oltretutto appesantito nel suo sviluppo da paurose forme di arretratezza, mistifica dilettantisticamente i contenuti irrinunciabili dell’internazionalismo proletario, si appropria della teoria dello sviluppo ineguale del capitalismo, agganciandole l’inevitabilità della vittoria del proletariato “in singoli paesi”, concludendo che la dimostrazione della validità della nuova tesi andava ricercata nella esperienza russa.
Né il marxismo, né il leninismo hanno mai espresso o fatto derivare la necessità di vittoria di un proletariato dall’azione “comune” dei proletari dei paesi più avanzati, perlomeno nel senso restrittivo e meccanicistico espresso da Stalin.
Nel liquidare l’impostazione di “prima” Stalin dà al termine “lotta comune” del proletariato dei paesi industrializzati, un significato cronologico, per cui, non essendosi verificata l’ipotesi di una rivoluzione proletaria internazionale e simultanea, come “prima” si pensava, “oggi” bisogna ammettere la possibilità della rivoluzione nazionale come diretta conseguenza dello sviluppo a balzi dell’imperialismo.
Lo sviluppo ineguale delle contraddizioni dell’imperialismo non era una novità, né prima, né dopo la morte di Lenin, né prima della Rivoluzione d’Ottobre, né dopo il suo lungo isolamento, né soprattutto, all’interno del movimento proletario internazionale si era ventilata l’ipotesi che le crisi economiche, inevitabili, endemiche al meccanismo economico produttivo dell’intero settore mondiale dell’imperialismo, potessero, in virtù di oscure forze, determinare simultaneamente la risposta rivoluzionaria della classe operaia internazionale, permetterle di esprimere monoliticamente una tattica ed una strategia, le sue avanguardie politiche, la radicalizzazione necessaria all’assalto vittorioso nei confronti del suo avversario di classe, giusto per assecondare l’impostazione di una tesi che tutto questo avrebbe previsto non tanto nei modi, quanto nei tempi.
Ciò era palesemente falso. La tesi marxista sulle leggi dialettiche dei processi rivoluzionari è ben più complessa ed articolata.
Nella fase del dominio del capitale monopolistico, dove le leggi dei rapporti di produzione capitalistici, attraverso gli infiniti meandri e canali del mercato, hanno raggiunto e condizionato tutti i punti della terra, le crisi non possono che essere generali, indipendentemente dal grado di sviluppo del capitalismo nei suoi vari settori, e le guerre internazionali; proporzionalmente almeno all’allargamento del mercato e al progredire delle forze centrifughe esasperate dalla concorrenza.
Le crisi del sistema produttivo e le sue nefaste conseguenze sono sempre state il terreno più propizio, deterministicamente più favorevole, al riacutizzarsi della lotta di classe. Ma il rapporto crisi economica, sua intensità ed estensione, e soluzione rivoluzionaria non si uniforma alla semplice meccanica della causa che genera l’effetto.
Perché ci possa essere una soluzione rivoluzionaria occorre che, accanto alle condizioni oggettive di crisi, che nella fase imperialista sono comuni alla stragrande maggioranza dei paesi, si manifestino anche quelle soggettive, quali la presenza del partito rivoluzionario strettamente legato alle istanze di lotta della classe. Mentre le prime hanno buone probabilità di manifestarsi contemporaneamente, anche se a diversi livelli di intensità, le seconde possono avere andamenti più o meno accelerati, ostacoli da rimuovere ed occasioni da sfruttare, a seconda del livello economico e politico di partenza, della capacità di coesione della classe operaia in quel contesto specifico nazionale, della resistenza della propria borghesia e della presenza del partito rivoluzionario.
Nessuno ha mai preteso, tantomeno Lenin, che accanto alle situazioni di crisi economica, prima durante e dopo la guerra, la lotta di classe in senso rivoluzionario si possa esprimere simultaneamente permettendo così di verificarsi nei fatti la presunta condizione cronologica senza la quale l’aspetto internazionalistico della lotta di classe verrebbe fatalmente meno.
Stalin, rimescolando le carte, pretendeva di giustificare il repentino cambiamento di rotta, attribuendo “all’ineluttabilità” del socialismo in un solo paese le modificate situazioni dell’imperialismo, chiamando a testimonianza della sua tesi ciò che invece doveva essere dimostrato.
Anzi, da questo punto di vista la rivoluzione russa dimostrava la precarietà del castello di carte dell’ingegner Stalin. Lo sviluppo ineguale del capitalismo contrassegnato da differenziati stadi di sviluppo delle aree imperialistiche, sincronismo a parte, non solo non era palesemente in grado di assicurare uno sviluppo economico in senso socialista nel paese in cui per prima una rivoluzione proletaria si fosse espressa, sicurezza tanto più fallace quanto più arretrato era il tessuto economico sul quale la rivoluzione aveva attecchito, ma al contrario ingigantiva la necessità di collegamento della prima esperienza rivoluzionaria con altre, possibilmente nei settori economici più avanzati.
La polemica di Lenin con i Menscevichi e con tutte le forze politiche legate alla Seconda Internazionale, non aveva per contenuto la simultaneità della lotta di classe nel continente europeo, ma l’opportunità di porre all’ordine del giorno, essendo presenti oltre alle condizioni oggettive anche quelle soggettive, la conquista del potere in un paese come la Russia, nel quale, per le leggi dell’ineguale sviluppo del capitalismo, l’arretratezza economica era incomparabilmente più ampia che in altri paesi dell’Europa occidentale.
Per Lenin il problema non era quello di attestarsi sulle basi di una rivoluzione democratico-borghese perché le condizioni economiche della Russia degli anni Venti non erano in grado di sopportare il passaggio all’economia socialista, né di rinunciare all’assalto rivoluzionario prima che avvenimenti analoghi spianassero la strada al proletariato russo. Per la strategia rivoluzionaria internazionale l’imperativo era quello di sfondare con una prima breccia la muraglia imperialistica, là dove l’intensità ed il livello della lotta di classe lo avessero permesso, poi, o altre brecce si sarebbero prodotte in altri punti della muraglia, o la prima ed unica esperienza rivoluzionaria si sarebbe ripiegata su se stessa, dilaniata dalle contraddizioni interne al pari della pressione capitalistica esterna. L’assurdo è che la tesi staliniana procede contro ogni logica a ritroso, assumendo l’ineguale sviluppo del capitalismo e l’isolamento rivoluzionario come le condizioni per l’ineluttabile vittoria.
1917-2017 - Rivoluzione d’ottobre
Nel 2017 ricorre il centenario della rivoluzione russa. Non ci interessano celebrazioni retoriche e cerimonie rituali. Riteniamo invece che sia utile cogliere l’occasione per proporre un percorso di letture che contribuisca a far riflettere, evidenziando le conquiste sul piano politico ottenute grazie all’esperienza dell’Ottobre, i limiti di quella rivoluzione e sfatando i tanti miti che si sono costruiti intorno a quanto è avvenuto dopo, con lo “stalinismo”.
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