I nodi economici della stalinismo: quarta parte

Proseguiamo con la pubblicazione del libro “La controrivoluzione”. Ecco una ulteriore puntata dedicata ai “nodi economici dello stalinismo”. Vi invitiamo a seguire la sezione del nostro sito web dedicata al Centenario della Rivoluzione Russa, dove potete trovare le parti precedenti del libro ed altro materiale… Buona lettura!

La banca di stato e il ruolo del capitale finanziario

Ma la Russia rimase sola e con essa la sua contraddizione politico-economica, tanto meno risolvibile quanto più isolata da aiuti esterni.

Nel frattempo il processo di accumulazione capitalistico sia nella sua versione privatistica che statale andava evolvendosi secondo i suoi immodificabili schemi. Più merci venivano prodotte, più i meccanismi del mercato andavano rafforzandosi. Più la macchina produttiva capitalistica oliava i suoi ingranaggi, più ardui si facevano i mezzi di controllo politico da parte dello Stato. Già a soli due anni dall’entrata in vigore della nuova politica economica lo stato era costretto ad un continuo processo di rinnovamento imposto dalle necessità di accumulazione capitalistica, mentre la struttura politica iniziava un lungo processo di adeguamento alla base economica, venendo progressivamente meno alla sua originaria funzione di controllo. Una “sana” organizzazione della produzione di merci in funzione del mercato non era operativamente ipotizzabile senza una adeguata politica finanziaria che servisse da supporto e da stimolo. Di questo lo stato si rese subito conto una volta rimesso in moto il meccanismo produttivo e risanato in qualche maniera la situazione deficitaria del bilancio. Senza la presenza della “merce” denaro non si sarebbe potuto favorire la circolazione delle altre merci, così come senza un adeguato reclutamento di capitale non si sarebbero create le condizioni dell’auspicato rilancio della grande industria.

La Gosbank, che aveva avuto i suoi natali il 16 novembre del ’21, nel ’22, superate le prime difficoltà derivate dalla svalutazione del rublo e dalla impossibilità materiale di amministrare un capitale finanziario inesistente, iniziò ad agire sul terreno che le era congeniale ovvero quello della stabilizzazione prima e del finanziamento poi. La stabilizzazione monetaria si ottiene mediante la riscossione dell’imposta non più in “natura” ma in moneta sonante, tramite le entrate in imposte dirette e forme di tassazione diverse. Nel febbraio del ’22 entrava in funzione una imposta pro capite o “imposta generale sul cittadino” giustificata come aiuto alle vittime della carestia, ma in realtà creata per rinsanguare le casse della banca dello Stato. Sei mesi più tardi si dava compimento alla politica annonaria perfezionando il primo decreto con una imposta sul reddito che andava ad attingere nelle fasce medio alte dei professionisti e dei nepmen. O le piccole e medie imprese, non collocabili all’interno dei grandi trust, erano in grado di autofinanziarsi perché competitive all’interno del mercato, perché in grado di mantenere un elevato contenuto tecnologico rispetto alle altre imprese del settore, perché riuscivano a strappare contratti più vantaggiosi con la forza lavoro, o erano destinate a scomparire.

Al contrario della fase del comunismo di guerra, dove lo Stato interveniva a sostegno delle attività produttive più deboli nella fase di rilancio dell’economia nazionale, lo Stato finanziava solo quelle imprese che avessero un minimo di futuro economico, operando perché le altre affrettassero il loro ritiro dal mercato anche a costo di creare milioni di disoccupati. Di converso gli aiuti e le facilitazioni alle imprese in attivo davano allo Stato la possibilità di imporre tassazioni progressive indicizzate all’aumento del fatturato al pari dei trust privati o statali e delle “concessioni”.

Altra voce importante per la stabilizzazione monetaria era fornita dalle esportazioni di grano e di materie prima che venivano sottratte al mercato russo per quello internazionale. Ottenuta la stabilizzazione monetaria e il ripristino della convertibilità in oro del rublo, la banca di stato iniziò ad operare su due fronti: da un lato reperire la maggior quota di capitale possibile delle ricchezze private, dall’altro iniziare a finanziare le attività produttive, e del settore statale e di quello privato. Nell’ottobre del ’22 la banca di stato emetteva buoni del tesoro per un ammontare di 100 milioni di rubli ora al sei per cento di interesse, accompagnata da una propaganda assidua per il risparmio privato e in favore della politica dei prestiti pubblici. Il 26 dicembre del ’22, sulla scorta dei primi successi in materia di politica finanziaria, il Sovnarkom approvava con un disegno di legge l’apertura delle due prime Casse di Risparmio a Mosca e a Pietrogrado. Alla fine del ’23 le Casse di Risparmio avevano raggiunto il ragguardevole numero di trecento con un giro di clienti valutabile attorno alle 60 mila unità. Sei mesi dopo si perveniva alla decuplicazione delle due voci.

Come notava lo stesso Preobrajensky nel suo lavoro, Dalla NEP al socialismo:

La banca era forte non solo dei capitali propri, ma anche dei capitali di tutti i depositari in tutte le sue succursali e negli istituti di credito sotto il suo controllo; essa si era trasformata nel centro di tutto il risparmio monetario realizzato nel paese. Le operazioni in divise, le mediazioni, le commissioni, le operazioni di deposito, ecc. le partecipazioni nei settori misti con il capitale straniero, la partecipazione agli utili dei trust di stato, tutto ciò fece della banca nel corso dei primi decenni una forza enorme la cui importanza si accrebbe ancora nel periodo di edificazione …. L’industria e l’agricoltura soffrivano per l’insufficienza cronica dei capitali destinati all’estensione della loro produzione. Ciò rafforzò al massimo l’influenza, solidamente unita ad essa dal legame del credito. Per ciò che concerne le nuove imprese, la loro creazione era quasi impossibile senza la partecipazione della banca, a meno che, naturalmente, l’impresa non fosse stata fondata con capitali stranieri. Di conseguenza non solo la banca si riservava un utile in quanto fondatore, ma essa interveniva anche nella direzione delle imprese (21).

Partendo dall’alto il sistema con tassi di interesse variabili, sia nell’agricoltura che nell’industria, aveva come primo motore la banca di stato. Attraverso il rastrellamento di capitale finanziario ottenuto dal pagamento dell’imposta dalla tassazione diretta e indiretta, dai proventi derivanti dalle concessioni, dal commercio con l’estero e dal risparmio privato, per centinaia di milioni di rubli oro, la banca di stato finanziava innanzitutto le industrie statali che, per l’importanza economica e politica che rivestivano, erano più bisognevoli. L’industria pesante ed i trasporti, come la rete di elettrificazione, non potevano che avere la precedenza assoluta nei confronti delle altre imprese. In seconda fila venivano i trust legati allo Stato da rapporti commerciali che imponevano alle imprese di quel settore di favorire nella vendita le industrie stabilizzate e solo dopo di rivolgersi al mercato. Nei confronti delle imprese private, la banca regolava il finanziamento a seconda delle prospettive commerciali, ovvero favoriva le più solide concorrendo a mandare a mare le più deboli.

Nell’agricoltura lo schema era ripetuto nei modi imposti dalla condizione agricola voluta dalla NEP.

Dalle fattorie di stato all’economia dei Kulakj, quando lo Stato decideva d’intervenire tramite la sua banca, lo faceva in modo oculato, rispettando le leggi della produttività e della concorrenza mercantile. L’aiuto ai contadini poveri ed alle imprese agricole patriarcali era ormai un ricordo.

La questione del “controllo”

Nonostante la difficile crisi del ’23, i primi cinque anni della nuova politica economica avevano consentito e favorito ampi spazi al processo di accumulazione capitalistico. In tutti i settori dell’economia russa le categorie economiche del capitalismo andavano consolidandosi stabilendo tra loro ferrei legami la cui saldatura era tanto più consistente quanto maggiore era lo sviluppo delle forze produttive. Dall’industria di stato alla sub-economia del mugik le leggi dell’accumulazione capitalistica imponevano che la produzione fosse compatibile alle necessità di valorizzazione dei capitali investiti e che la politica finanziaria si uniformasse in tutto e per tutto alle necessità della struttura economica all’insegna del minore spreco possibile.

Il rispetto più rigoroso della rimuneratività del capitale raccolto e poi investito, non impediva alla banca di stato tramite le sue succursali sparse in tutto il territorio di imboccare con successo anche la strada della speculazione. La Russia, come tutti i paesi a prevalente economia agricola, esposta alle fluttuazioni stagionali, vedeva riversarsi sui mercati nel periodo autunnale una quantità relativamente enorme di beni di consumo alimentari ad un costo sufficientemente contenuto data la sproporzione tra l’offerta e la domanda, mentre nei mesi della semina sino al nuovo raccolto la diminuita quantità di derrate alimentari faceva lievitare i prezzi sia all’ingrosso che al dettaglio.

La banca di stato pensò bene di sfruttare la situazione investendo speculativamente nei momenti opportuni ingenti quote di capitale al solo fine di ottenere degli extraprofitti commerciali. In altri termini la banca di stato, nei periodi di abbondanza di prodotti agricoli si inseriva sul mercato acquistando a prezzi bassi per ripresentarsi sul mercato nei periodi di carenza produttiva come venditrice a prezzi più vantaggiosi. L’espediente che scimmiottava gli aspetti apertamente degenerativi dell’economia capitalistica dava la misura di come, una volta imboccata la strada, sia impossibile ripercorrerla a ritroso. Non esiste un capitalismo buono e uno cattivo, uno sano e uno malato, uno tollerabile e uno insopportabile. Il capitalismo è una forma produttiva con delle sue leggi, darne il la significa assecondare queste leggi, la loro logica e le loro contraddizioni e sfasature, speculazione compresa.

Ma torniamo al problema del “controllo”. Nelle aspettative come nelle preoccupazioni di Lenin e del partito, alla vigilia del varo della NEP, controllo politico dello sviluppo delle forze produttive come passo indietro necessario in attesa della rivoluzione nell’Europa occidentale, significava sì consentire lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici ma anche che questo sviluppo non travalicasse un processo irreversibile e che non assumesse nelle forme come nei modi del suo manifestarsi i caratteri della degenerazione. A questo scopo lo stato sovietico si era dotato di strumenti politici ai quali era demandato il compito di esercitare questo controllo. I primi cinque anni di NEP stanno a dimostrare l’esatto contrario Non solo gli organismi preposti non riuscirono a svolgere la loro funzione politica di controllo dell’economia, ma col passare degli avvenimenti interni, sempre più condizionati dall’isolamento economico e politico internazionale, finivano per assecondare le istanze del processo economico innescato, sino a diventarne l’orpello amministrativo.

Un organismo come il Gosplan (commissione per la pianificazione generale di stato) sorto nell’aprile del ’21 a garanzia politica della Banca di Stato che, come organismo prettamente finanziario, andava amministrato secondo le ipotesi del “controllo”, divenne il consulente economico della pianificazione degli investimenti di capitale finanziario in strettissima coerenza con le esigenze di valorizzazione del capitale bancario privato e statale.

Già prima della pianificazione (primo piano quinquennale, 1928-32) anche gli altri organismi statali furono agganciati al processo di accumulazione capitalistico senza avere lo spazio entro cui operare secondo i programmi per la risoluzione dei quali erano sorti. Il Narkomprod (commissariato del popolo al lavoro), che avrebbe dovuto esercitare il controllo dal basso riguardo tutti i problemi inerenti il mondo del lavoro, divenne lo strumento più importante attraverso il quale venivano sanciti i regolamenti che imprigionavano la forza lavoro sia rurale che industriale al meccanismo economico, senza nemmeno tentare di operare in senso inverso.

Il Sovnarkom (consiglio dei commissari del popolo), sin dal suo sorgere, operò con una lunga serie di decreti intesi a creare tutte le migliori condizioni politico amministrative alle piccole e medie imprese in modo da non soffocare “l’iniziativa economica dei singoli e dei gruppi della popolazione” e cercando persino di far rientrare alcuni aspetti della socializzazione dei mezzi di produzione. Lo stesso discorso vale per il Vescenkha (consiglio supremo dell’economia nazionale) e degli organismi statali periferici come il Narkomfin e il Sovnarkhoz.

Per tutti questi organismi statali chiamati ad amministrare i due termini della contraddizione sul terreno scivoloso del “controllo”, prolungandosi l’attesa della rivoluzione internazionale e del pari il consolidamento della base produttiva nei termini della nuova politica economica, il controllo dell’economia capitalistica andava fatalmente trasformandosi in controllo per le leggi dell’economia capitalistica contro ogni ostacolo sia di ordine strutturale, amministrativo che soggettivo.

Durante la crisi del ’23 (crisi delle forbici), così definita dal progressivo divaricarsi del prezzo delle merci in favore del settore industriale nei confronti di quello agricolo, lo stesso presidente del Vescenkha ammise pubblicamente che i sindacati erano stati creati “per difendere in primo luogo gli interessi commerciali dei trust” con il risultato di “eliminare la concorrenza consentendo in tal modo l’aumento dei prezzi di una intera serie di prodotti”. Pochi mesi dopo il dodicesimo congresso del partito, Bogdanov cercò di addolcire la pillola sostenendo che “i sindacati e i trust hanno ormai incominciato a ridurre le spese generali, e la parola d’ordine – riduzione dei costi – è la parola d’ordine fondamentale dei nostri sindacati, i quali premono in questo senso sui trust, costringendoli a tenere conto delle esigenze di mercato”. In entrambe le versioni, la prima disarmante per la sua ingenuità, la secondo più addomesticata, era palese il ruolo degli organismi statali. Non più controllori, ma curatori del perfetto funzionamento della macchina produttiva.

D’altra parte gli organismi politici dello Stato, qualunque fosse la loro funzione specifica nell’ambito del “controllo”, non potevano astrarsi dai rapporti economici per evitarne il condizionamento. Stabilito nei fatti, dopo anni di isolamento, che non esistevano ancora le condizioni per un primo inizio di costruzione del socialismo, ma solo quello dello sviluppo capitalistico, assodato che lo Stato socialista non poteva ancora svolgere da guida politica verso il comunismo, ma soltanto da controllore dello sviluppo economico, col passare del tempo e dell’isolamento, andava evidenziandosi un nuovo ruolo: quello di sollecitatore dello sviluppo delle forze produttive in chiave capitalistica.

Nel momento in cui la lotta politica di “resistenza” è costretta dalle condizioni obiettive a spostarsi sul terreno economico nel senso inverso a lei sfavorevole, e perdurando tutti gli ostacoli derivanti dall’aggravamento della situazione interna come riflesso negativo di quella esterna, il condizionamento è inevitabile. Era pia illusione quella di poter mantenere la direzione politica e quindi il controllo sulla economia di mercato in tempi lunghi.

Il grido di allarme di Lenin non era stato buttato a caso. Nello stesso periodo, in una risoluzione del partito, si avvertiva il pericolo ma non se ne vedevano, o non si volevano vedere, le prevedibili, disastrose, conseguenze. La lotta fra direzione comunista e direzione privata si trasferisce ora sul piano economico, sul mercato, dove l’industria nazionalizzata, concentrata nelle mani dello stesso proletariato, dovrà, “adattandosi alle condizioni del mercato e ai metodi della concorrenza, imporsi e stabilire la propria definitiva supremazia”.

In altri termini, il progetto a lunga scadenza prevedeva l’adeguamento di tutta la struttura produttiva, ed in primo luogo di quella nazionalizzata, alle condizioni di mercato e ai metodi della concorrenza capitalistica, nella speranza di imporre la supremazia comunista. Quale definitiva vittoria o supremazia comunista era ipotizzabile nel momento in cui le strutture economiche, al pari di quelle politiche, erano costrette a scendere sul terreno avversario, dovendo, oltretutto, subire le regole del gioco?

Le leggi del determinismo economico hanno da sempre dimostrato che la sovrastruttura politica, intesa come momento innovatore da un punto di vista rivoluzionario può intervenire nella struttura economica per modificarla solo se si verificano certe condizioni. In mancanza di queste, sarà sempre la struttura economica ad avere il sopravvento, anche nei confronti di un potere rivoluzionario. Ogni programma di resistenza e di controllo, anche il più valido tatticamente, nei tempi lunghi è destinato all’insuccesso.

Ma la questione dei tempi di “resistenza” e del “controllo”, avulsi dal contesto rivoluzionario internazionale, apre le strade ad un’altra questione cara allo stalinismo di ieri come a quello di oggi: lo scontro tra le due forme economiche e le possibilità di un vicendevole, reciproco superamento.

Dedotta dai fatti e non dalle tesi giustificatorie del periodo e successive, la rivoluzione russa fu costretta a percorrere a ritroso la strada che avrebbe dovuto condurla al comunismo. Dall’assalto al Palazzo d’Inverno ai primi, sperimentali tentativi di programmazione economica, ci furono, determinati dalle condizioni obiettive, soltanto “passi indietro”.

L’Ottobre bolscevico aveva creato le premesse politiche al processo di trasformazione, la guerra civile sotto l’involucro politico-amministrativo del “comunismo di guerra” fu, rispetto a quelle, il primo passo indietro. La NEP, sia nella fase iniziale che nella impostazione definitiva, sia per i contenuti economici che per gli assestamenti politici, ne fu il secondo.

Da quel momento, ogni ulteriore movimento, nella più assoluta assenza di condizioni favorevoli su scala internazionale, non poteva che concorrere all’edificazione di una struttura economica capitalistica modellata, nei modi di gestione e nelle forme organizzative, dall’impostazione della nuova politica economica. Fu così che l’aspetto eccezionale divenne normalità, che il carattere contingente e transitorio della NEP si trasformò, nelle contraddittorie tesi della controrivoluzione, in assoluto e permanente modello di sviluppo dei nuovi rapporti di produzione. Fu così che i passi indietro divennero per incanto passi in avanti sulla strada delle conquiste socialiste.

Il presunto scontro tra le due forme produttive

La tesi per eccellenza, ma non unica, su cui le forze della controrivoluzione si basavano a giustificazione del presunto procedere verso traguardi economici socialisti, conteneva un vizio di fondo. Si partiva dal presupposto di per sé evidente che ogni fase di transizione è tale proprio perché implica un periodo più o meno lungo, più o meno difficile in cui la nuova forma produttiva si crea il proprio spazio vitale a spese della vecchia e per cui le due forme economiche, per un certo periodo di tempo, coesistono combattendosi sino alla completa vittoria dell’una sull’altra. Si concludeva che, avendo la Russia partorito una rivoluzione proletaria, l’arco storico che ne seguiva, non poteva vedere che lo scontro tra i due sistemi economici, magari con cedimenti e retromarce ma comunque orientato all’annientamento di uno dei due termini antagonisti

Da questa impostazione generale l’ideologia controrivoluzionaria si divarica in due tronconi. Il primo, ortodosso sino all’inverosimile, all’assioma esposto, che possiamo definire con una facile sintesi storica stalinismo, faceva del presunto scontro, al di fuori di ogni evidenza contraria, il trampolino di lancio per le conquiste del socialismo a spese della restante o rinascente area capitalistica, che per copione doveva recitare il ruolo del cattivo perdente. Il secondo, più recente, e per questa ragione impossibilitato a ricalcare pedissequamente i falsi del primo, eterodosso quindi rispetto alla formulazione originaria, articola i termini dello scontro tra le due forme economiche proiettandoli verso una soluzione non più vittoriosa ma che tale avrebbe potuto essere se Stalin, e con lui le forze della “rivoluzione”, non avesse compiuto degli errori di valutazione sull’evolversi della lotta di classe.

Entrambe le tesi, benché approdanti a due conclusioni differenti, partono dai medesimi presupposti, e quel che più conta, sono informate dal medesimo errore metodologico che le fa apparire come due varianti o corollari dell’originale assioma, che prevede nella Russia post-rivoluzionaria l’esistenza di un’area produttivo-distributiva socialista da difendere e potenziare contro le strutture del capitalismo e del precapitalismo, e con essa, la possibilità di un socialismo autarchico, non agganciato ad altre esperienze rivoluzionarie.

Entrambe hanno la pretesa di prendere le mosse dall’impostazione leninista ufficializzando così le rispettive prassi controrivoluzionarie.

In effetti Lenin, sempre nell’Imposta in natura, introducendo con la NEP il complesso meccanismo economico che avrebbe dovuto consentire al potere socialista di resistere, individuava in cinque momenti fondamentali la struttura economica della Russa agli inizi degli anni Venti:

  1. l’economia contadina patriarcale, cioè in parte considerevole economia naturale
  2. la piccola produzione mercantile (qui entra la maggioranza dei contadini che vendono il grano)
  3. il capitalismo privato
  4. il capitalismo di Stato
  5. il socialismo.

Ma, ammonisce Lenin,

In Russia predomina oggi proprio il capitalismo piccolo borghese, il quale conduce per la stessa strada, sia al grande capitalismo di Stato che al socialismo … Chi non comprende ciò, commette un imperdonabile errore economico, sia non conoscendo i fatti reali, non vedendo ciò che esiste, non sapendo guardare in viso la realtà, sia limitandosi ad un confronto astratto fra capitalismo e socialismo, senza approfondirsi nelle forme concrete e negli stadi di questo passaggio che ha luogo attualmente nel nostro paese (22).

Gli stadi di questo passaggio – continua Lenin – devono tenere conto anche se non soprattutto delle condizioni esterne alla Russia. Se è inconcepibile il socialismo senza la grande industria capitalistica, organizzata secondo l’ultima parola della scienza moderna, senza una organizzazione statale sistematica che sottoponga decine di milioni di uomini alla più severa osservanza di una norma unica nel processo di produzione e di ripartizione dei prodotti, solo la vittoria della rivoluzione proletaria in Germania spezzerebbe subito con enorme facilità ogni guscio dell’imperialismo … e realizzerebbe di sicuro la vittoria del socialismo mondiale senza difficoltà o con difficoltà trascurabili, certamente, se si considera la difficoltà su scala storica mondiale e non su quella piccolo borghese settaria. E non ultimo se in Germania la rivoluzione ritarda a scoppiare il nostro compito è di imparare il capitalismo di Stato dai tedeschi, di assimilarlo con tutte le forze, di non risparmiare i metodi dittatoriali per affrettare questa assimilazione dell’occidentalismo da parte della barbara Russia (23).

E siamo al problema di sempre. Per Lenin la questione principale non era quella di creare un’impossibile, anche se prima, area socialista di “produzione e di ripartizione dei prodotti”, per questo occorreva la grande industria che era ancora lì da venire, ma nella più limitata prospettiva contingente, occorreva incamminarsi verso le forme del capitalismo di stato, in attesa della rivoluzione internazionale, che sola avrebbe potuto liberare la Russia bolscevica dalle proprie contraddizioni.

Quando Lenin, nella definizione delle forme produttive esistenti in Russia agli inizi della NEP accenna ad una area “socialista” la intende da un punto di vista politico, come diretto “controllo” dello stato socialista sulla produzione di beni strumentali, e non in senso economico stretto. Lo stato, in effetti, già ai tempi del “comunismo di guerra”, dovette accollarsi, pur non avendone le possibilità finanziarie, la gestione diretta delle maggiori attività produttive (la grande industria), e per evitarne lo sfascio completo, e per imprescindibili motivazioni politiche imposte dalla lotta di classe. Ma proprio la grande industria aveva fatto dichiarare a Lenin l’impossibilità della costruzione di una prima fascia economico-produttiva di tipo socialista. Come conciliare allora le preoccupazioni tattiche di resistere al potere controllando lo sviluppo delle forze produttive nelle forme del capitalismo di stato, in attesa della rivoluzione internazionale che riconvertisse la linea di tendenza economica in senso socialista, con la presunta esistenza di un’area socialista proprio nel settore più debole dell’intera economia sovietica? Come conciliare l’ipotesi di una gestione socialista in un settore arretrato, distrutto, quasi incapace di muoversi con i presupposti della nuova politica economica, nata soprattutto per rinsanguare l’anemica economia di stato? Come pretendere di finanziare l’area socialista, tale per definizione, con i proventi della piccola e media produzione agricola?

Come abbiamo visto la NEP aveva un solo scopo, quello di creare le condizioni favorevoli allo sviluppo del capitalismo di stato, adeguando tutta l’economia alle leggi del mercato, senza riserva alcuna, né politica né amministrativa.

Per socialismo, per il suo sviluppo e rafforzamento, va inteso quel processo contraddittorio, difficilissimo da amministrare, in cui lo stato socialista, pur costretto a camminare a ritroso, si manteneva come guida politica di un processo economico capitalistico. Soltanto in questa prospettiva ha un senso compiuto la casistica di Lenin, anche se una ridefinizione terminologica sulla base del reale contenuto economico, a questo punto, si imporrebbe. Tenendo conto del mercato e delle fasce sociali che ad esso si rifacevano sia da un punto di vista produttivo delle merci che da un punto di vista distributivo dei redditi e del consumo, i cinque punti subiscono una variazione.

Al primo posto l’economia contadina patriarcale, ovvero una produzione contenuta nei limiti del consumo, appena sufficiente a mantenere il nucleo familiare e pertanto non in grado di presentarsi sul mercato in veste di “offerta” di beni di consumo.

Al punto due la piccola produzione agricola, tipica dei contadini medi, in grado di produrre in grano una piccola eccedenza da inviare sul mercato per lo scambio con i prodotti manifatturieri derivanti dalla piccola produzione artigianale. Al punto tre il capitalismo privato, sia agricolo che industriale, rappresentato dal capitale straniero sotto la forma giuridica delle “concessioni”, i trust e le imprese produttive del settore dei beni di consumo e di trasformazione non sovvenzionati dagli organi statali, e le imprese agricole dei contadini ricchi.

Il quarto punto, contrassegnato dalla “voce” capitalismo di stato, in realtà altro non era che una sorta di controllo statale su alcuni settori dell’economia attraverso le società miste come le cooperative, i trust parzialmente sovvenzionati dagli organismi governativi, e tutte quelle imprese che, pur avendo l’autonomia di stabilire “in proprio” contratti con la forza lavoro, di reperire autonomamente sul mercato finanziamenti e materie prime, erano costrette dal piano a favorire le necessità di approvvigionamento delle imprese statali.

Infine, il quinto punto, l’area cosiddetta socialista, in effetti era il capitalismo di stato vero e proprio. La “grande” industria, comprensiva del settore minerario, delle fonderie, della metallurgia, della metalmeccanica, della produzione dei beni strumentali sia del settore primario che dei beni di consumo, al pari del commercio con l’estero della rete dei trasporti, era amministrata commercialmente dallo Stato.

La banca di Stato, sempre più strettamente sorretta e guidata dalle proiezioni pianificatrici del Gosplan, finanziava prioritariamente quei settori produttivi che vedevano l’intervento dello Stato come imprenditore. Lo schema economico, in tutto simile a quello dei paesi occidentali, eccezion fatta per l’aspetto avanzatissimo della concentrazione economica e della centralizzazione politica, vedeva l’istituto di credito per eccellenza rastrellare su licenza e commissione dello Stato, attraverso l’imposta in numerario, le tasse sul reddito e quelle indirette da devolvere all’investimento. A sua volta l’investimento doveva innanzitutto privilegiare le industrie di Stato, quelle para-statali, ed infine quelle private che fossero in grado di dimostrare la rimuneratività dell’investimento. In tutti i settori, da quello statale a quello privato, gli scambi dovevano avvenire in contanti sulla base del calcolo economico. Nell’estate del ’21, un ennesimo decreto del Sovnarkom imponeva che tutte le merci come i servizi prodotti e gestiti dallo Stato, fossero pagati in contanti. Nulla di sorprendente se il punto di approdo della nuova politica economica doveva essere il capitalismo di stato, come non desta meraviglia che il capitalismo di stato avesse bisogno della grande industria e che quest’ultima, per uscire dal ristagno economico, necessitasse di investimenti privilegiati. Sempre Lenin, al IV Congresso del Comintern in materia economica ammoniva che:

La salvezza della Russia non consiste soltanto in un buon raccolto nell’azienda contadina, questo è ancora poco, e non soltanto nelle buone condizioni dell’industria leggera che fornisce ai contadini gli oggetti di consumo, anche questo è poco, ci è anche necessaria l’industria pesante … l’industria pesante ha bisogno di sussidi statali. Se non troveremo questi sussidi, saremo perduti, non dico come stato socialista, ma come paese civile (24).

In sintesi, con la NEP, la riapertura del mercato, l’orientamento della produzione a tutti i livelli verso i fini di profitto, non si sperava soltanto di far prendere fiato all’economia, ma anche di reperire finanziamenti all’industria pesante ancora pressoché immobile; ma paradossalmente proprio là si vuol far credere all’esistenza del socialismo. Altro che scontro tra le due forme produttive!

Per tutti gli anni Venti, lo sforzo maggiore fu quello di puntellare il capitalismo di stato con i proventi del capitalismo privato, ovvero di subordinare l’industria leggere per quella pesante, i consumi per gli investimenti.

Non è rilevante, al momento, ai fini dell’analisi individuare il perché della poca chiarezza di Lenin nella definizione della quinta forma produttiva e della confusione sul termine capitalismo di stato, soprattutto in rapporto alla prospettiva estremamente pressante di “resistere” che di certo non contemplava aree socialiste da contrapporre alle variegate forme della produzione capitalistica, in modo particolare nel settore della grande industria. Va comunque notato che la casistica economica stilata da Lenin, apparsa come introduzione al lavoro preparatorio della NEP L’imposta in natura, faceva parte di un opuscolo redatto nella primavera del ’18, agli inizi, cioè, del “comunismo di guerra”. Periodo, questo, caratterizzato oltre che dalla guerra civile, dalle operazioni di nazionalizzazione di tutti i settori vitali dell’economia.

Nazionalizzare significa trasferire nelle mani dello Stato la proprietà giuridica dei mezzi di produzione e non la loro trasformazione, la quale avrebbe dovuto avvenire successivamente sulla scorta di un lungo processo, a condizione di avere tutte le condizioni favorevoli, cosa che non avvenne né allora né mai. È legittimo quindi pensare che Lenin intendesse per area socialista quella caratterizzata dalla gestione diretta dello Stato rivoluzionario, per il suo involucro politico, non per il suo contenuto economico. Ciò, oltretutto, sarebbe in sintonia con la sua preoccupazione di resistere sul piano politico, più di quanto non lo sia la tesi di un socialismo già partorito (e quando, se siamo soltanto nella primavera del ’18) che doveva vedersela, in uno scontro mortale, con il capitalismo.

L’altro inghippo, quello della definizione del capitalismo di stato, ha una sua giustificazione storica. Quando Lenin, al secondo passo indietro, dopo quello del “comunismo di guerra”, nell’introdurre gli scopi economici e le prospettive politiche della NEP, prospettava con le “concessioni”, i trust sotto il controllo governativo, e l’amministrazione delle società miste, di organizzare una sorta di capitalismo di stato, aveva come punto di riferimento l’avanzatissimo, per allora, capitalismo tedesco. La Germania era di gran lunga la nazione europea all’avanguardia non soltanto nel campo economico ma anche nelle forme della gestione statale. Come punta avanzata dello schieramento imperialistico internazionale non poteva che esprimere anche le prime forme di intervento dello Stato nell’economia. Ma questo intervento era ancora “imperfetto”, si limitava alla gestione macroeconomica delle più importanti attività produttive ed alle prime forme di compartecipazione in società miste socialmente necessarie quanto economicamente deficitarie. Solo dopo la grande crisi del ’29-’33 il capitalismo mondiale, che già aveva partorito il monopolio privato, si vide costretto a dare la stura alle prime apparizioni del monopolio statale, ossia allo stato imprenditore.

Prima di allora, durante e subito dopo la prima guerra mondiale, per capitalismo di stato si intendeva l’amministrazione statale di vertice, il controllo politico dei vari settori della produzione, senza però che lo Stato intervenisse sul mercato come produttore, se non in casi eccezionali. E ciò lo si aveva solo in Germania. Ecco perché Lenin, ispirandosi al capitalismo più evoluto, vedeva nelle “concessioni” e nel controllo delle società miste il capitalismo di stato che bisognava costruire.

Giovedì, January 11, 2018