I nodi economici dello stalinismo: seconda parte

Proseguiamo con la pubblicazione del libro “La controrivoluzione”. Ecco una seconda puntata dedicata ai “nodi economici dello stalinismo”. Vi invitiamo a seguire la sezione del nostro sito web dedicata al Centenario della Rivoluzione Russa, dove potete trovare le parti precedenti del libro ed altro materiale… Buona lettura!

Dal Comunismo di guerra alla NEP

Il comunismo di guerra

Che negli anni immediatamente successivi alla presa del potere da parte del partito bolscevico non ci fossero le condizioni materiali per iniziare il processo di costruzione del socialismo, era evidente nelle cose quanto nelle ambizioni degli stessi dirigenti del partito.

Tanto, tantissimo si era fatto sul piano delle conquiste politiche. Tra l’ottobre del ’17 ed i primissimi anni del ’19, innumerevoli furono i provvedimenti presi in funzione della costituzione e del consolidamento del potere proletario. Il 19 novembre 1917 veniva varato il decreto sul controllo operaio, il 16 aprile 1918 il decreto sulla creazione di cooperative di consumo sotto il controllo dei soviet, il 23 aprile dello stesso anno quello sul monopolio del commercio con l’estero. Nel settore agricolo, nell’agosto del ’18, venne emanata una serie di decreti riguardanti l’atteggiamento da tenersi nei confronti dei contadini ricchi per cui si dava mandato ai sindacati, ai comitati di fabbrica ed ai soviet contadini di organizzare squadre di volontari al fine di requisire il grano ai kulaki. Misure, queste, direttamente connesse alla socializzazione dei mezzi di produzione ed alla collettivizzazione delle terre. La connessione non risiedeva tanto nella falsa identificazione: socializzazione più collettivizzazione uguale socialismo, quanto nella necessità di concentrare e di centralizzare i gangli vitali dell’economia come quelli dell’amministrazione, in un momento in cui i danni della guerra imperialista e di quella civile avevano devastato tutti i settori della vita sociale. Nessuno a quell’epoca, tantomeno Lenin, si nascose il vero significato di queste prime misure contro la borghesia e l’aristocrazia fondiaria e della loro estensione ed intensificazione.

Si può essere decisi o indecisi sulla nazionalizzazione e sulla confisca. Ma nessuna decisione, anche la maggiore del mondo, può essere sufficiente ad assicurare il passaggio dalla nazionalizzazione e dalla confisca alla socializzazione (9).

Troppo spesso lo stalinismo si è servito, sia nella seconda metà degli anni ’20 che successivamente, della confusione dei due termini per giustificare un presunto sviluppo del settore socialista sulla scorta delle prime realizzazioni. La realtà economica russa negli anni della guerra civile non consentiva voli pindarici al di là dei limiti imposti dall’isolamento internazionale e dall’arretratezza interna delle forze produttive. Quando Lenin mise in guardia il partito e gli organi politici nati dalla rivoluzione che, all’ordine del giorno, non vi era la costruzione del socialismo ma la necessità di resistere, e che resistere significava riaprire alle leggi del mercato capitalistico la imprescindibile necessità dello sviluppo delle forze produttive, aveva ben presente quale era la condizione dell’industria e dell’agricoltura della Russia dei soviet.

Lo schema secondo il quale si sarebbe svolta la politica di resistenza politica, pur nel severo controllo di quanto andava maturando all’interno dei rapporti di produzione, non consentiva varianti di sorta. Per provocare il decollo delle forze produttive occorrevano capitali e tecnologia, derrate alimentari e generi di prima necessità per la forza lavoro urbana, occorrevano concimi chimici, trattori ed impianti per l’agricoltura. Dove reperire tutto ciò? Quale politica economica avrebbe potuto gettare le basi di uno sviluppo, anche se capitalistico, delle forze produttive? Una sola era la risposta. Bisognava ridare fiato alla produzione agricola attraverso una politica di incentivi materiali, spostare l’asse delle alleanze dai contadini poveri a quelli medi e contemporaneamente assumere un atteggiamento di lassez faire nei confronti dei contadini ricchi. Solo una ripresa dell’economia agricola avrebbe permesso allo stato operaio di schiumare quote sempre maggiori di capitale finanziario da immettere nell’industria controllata dagli organi statali. D’altro canto lo sviluppo industriale non avrebbe potuto giovarsi soltanto di ciò che la produzione agricola era in grado di fornire spontaneamente, era necessario riaprire le frontiere alla tecnologia ed al capitale finanziario straniero attraverso la politica delle concessioni.

Questo il programma di massima. Ma nel breve periodo degli anni ’18-’20, caratterizzati dalla guerra civile e dalla più assoluta disgregazione dei fattori economici, quando ancora era impensabile rendere immediatamente operativo un equo rapporto tra città e campagna, tra la produzione industriale e quella agricola, solo la forma delle requisizioni avrebbe permesso all’insieme dell’economia russa di sopravvivere. Il «comunismo di guerra» altro non fu se non il necessario, quanto disperato, tentativo di resistere economicamente per continuare ad esistere politicamente.

Le condizioni dell’industria russa negli anni del comunismo di guerra avevano raggiunto il punto più basso. A parte l’inevitabilità dell’esaurimento delle scorte, bruciate nel corso della guerra civile, e le difficoltà di trasformare l’intero apparato produttivo dal settore bellico a quello civile, si sommarono in quegli anni una serie di fattori negativi il cui peso ebbe l’effetto di accelerare tutte quelle misure economiche e politiche sul piano della concentrazione economica e della centralizzazione amministrativa che serviranno alle forze della controrivoluzione da trampolino di lancio per la costruzione del capitalismo di stato.

Il comunismo di guerra nell’industria

La guerra imperialista era costata al popolo russo quattro milioni di morti, la guerra civile sette milioni. Già questi drammatici dati forniscono l’idea di quali immani problemi travagliavano il governo bolscevico. Le più importanti miniere di ferro e di carbone nella zona mineraria dell’Ucraina rimasero inservibili sino alla fine del 1920 con tutte le conseguenze del caso sulle industrie metallurgiche e metal meccaniche. Gli approvvigionamenti di petrolio provenienti dalla regione di Baku rimasero interrotti sino alla fine del ’19 con grave danno per tutto l’apparato industriale. La produzione di lino ed i rifornimenti di cotone greggio furono ripresi solo dopo il ’20. Di tutta la rete ferroviaria solo un quinto era agibile, delle sedicimila locomotive solo duemila erano in funzione.

La situazione complessiva era così grave che al III Congresso Panrusso dei Consigli dell’Economia Nazionale si dovette dichiarare che «le forze produttive del paese non potevano essere pienamente utilizzate, mentre una parte considerevole delle fabbriche e delle officine erano ferme».

La prima, grave conseguenza di questo stato di cose non poteva che riflettersi sulle condizioni di vita della classe operaia. Il dissesto dell’apparato industriale, aggravato dallo scioglimento, nel settembre del ’20, dell’esercito, creò, oltre al fenomeno tipico della disoccupazione di enormi masse, quello dello spopolamento dei grandi centri urbani ad alta concentrazione industriale, per un ripopolamento abnorme, quanto pericoloso, delle campagne.

Il fenomeno fu così grave ed allarmante che al II Congresso Panrusso dei Sindacati nel gennaio del ’19, uno dei relatori, Rudzutak, ebbe a dire:

In numerosi centri industriali, per effetto della contrazione della produzione nelle fabbriche, gli operai vengono assorbiti dalla massa contadina; si sta formando una popolazione semicontadina e talvolta interamente contadina.

In base ai calcoli degli stessi organismi sindacali della fine del ’19, riferentisi a tutte le regioni controllate dal governo sovietico, risultava che la popolazione industriale, rispetto alle cifre del ’17, era diminuita del 24%, del 63% nelle ferrovie e del 66% nell’industria edilizia. Sempre dagli stessi rilevamenti, ma su cifre globali, risultava che gli operai salariati nel settore industriale da 2.600mila nel ’13 erano saliti a 3 milioni nel ’17 per poi scendere a 2 milioni nel ’18 ed a 1.480mila nel biennio ’20-’21 sino a 1.240mila nel 1921-22. Omogeneamente le stesse statistiche riportavano i dati della diminuzione della produzione che nei casi più gravi, come quello della ghisa e del minerale di ferro, raggiunse l’ottanta, il novanta per cento.

Il governo bolscevico, in simili condizioni, non aveva molte vie da percorrere. Il suo primo atto, nella convulsa fase del comunismo di guerra, rispose al duplice obiettivo di salvaguardare uno dei principali compiti politici della rivoluzione proletaria, la socializzazione dei più importanti settori dell’attività produttiva, e quello economico di controllare, attraverso i suoi organi Vesenkha (Consiglio Supremo dell’Economia Nazionale), l’auspicato rilancio dell’economia.

Con il decreto del 28 giugno 1918 vennero nazionalizzate tutte le aziende meccanizzate con più di cinque lavoratori salariati alle proprie dipendenze e quelle non meccanizzate con più di dieci operai. In base al successivo decreto del novembre 1920, erano passate alle dipendenze dello Stato 37mila aziende per un totale di 1.615mila operai su 2.200mila.

Alla statizzazione dei maggiori settori industriali si aggiunse, nel novembre del ’18, un decreto del Narkomprod (Commissariato del popolo al lavoro) sull’organizzazione degli approvvigionamenti inteso alla regolamentazione del commercio interno in sostituzione al commercio privato.

Nello spirito del decreto, con il monopolio statale della distribuzione, si pensava di poter instaurare una prima forma socialista della distribuzione e quindi del consumo sulla base di un piano che tenesse in conto le varie necessità sociali. Innanzitutto venivano stabiliti i quantitativi di merci destinati all’esportazione (cosa del resto molto importante per una economia in fase di rilancio), poi quelli necessari al consumo delle industrie ed alle scorte, e infine quelli destinati al consumo della popolazione.

Per quest’ultimo aspetto resta significativo l’esperimento tentato nell’agosto del ’18 a Pietrogrado dove, per la prima volta veniva introdotto, a livello di esperimento ben presto rientrato, un sistema differenziato di razionamento.

La domanda di consumo fu divisa in tre fasce: 1) addetti ai lavori pesanti, 2) lavoratori in genere e loro famiglie, 3) membri della ex borghesia. Alla prima spettavano razioni di beni di consumo quattro volte superiori alla terza categoria ed alla seconda razioni tre volte superiori sempre nei confronti della terza.

L’intervento dello Stato si fece sentire anche nella fissazione dei prezzi. Ad esso spettava la fissazione dei prezzi all’ingrosso, mentre quelli al minuto venivano regolati dai soviet locali. Queste misure, non ancora pienamente socialiste, ma senz’altro avanzatissime rispetto ai tradizionali metodi di distribuzione capitalistici, trovarono sulla loro strada, nel periodo del comunismo di guerra, ostacoli insormontabili.

La statizzazione dei più importanti mezzi di produzione, il monopolio statale della distribuzione, come la fissazione governativa dei prezzi urtarono contro la resistenza contadina.

Organizzare la distribuzione delle derrate alimentari, necessarie per la sopravvivenza fisica del proletariato industriale urbano, avrebbe dovuto significare la possibilità di scambio con beni industriali necessari all’agricoltura, ma questo era materialmente impossibile.

L’arretratezza dell’industria era tale che poco o nulla usciva dalle città per prendere la strada della campagna. Lo stesso Lenin, al nono congresso del partito, nel marzo del ’19, a proposito della tattica da adottare nei confronti del contadino medio, anticipando nei contenuti quella che sarebbe stata la Nuova politica economica, mise il dito sulla piaga:

Se noi domani potessimo offrirgli 100 mila trattori di prima qualità, provvederlo della benzina e fornirgli anche i meccanici (voi sapete bene che, per il momento, si tratta di pura fantasia) il contadino medio direbbe: “io sono per la comune” (ossia per il comunismo). Ma per fare ciò è necessario prima conquistare la borghesia internazionale e costringerla a darci i trattori (10).

Il discorso non fa una grinza. Sempre parafrasando Lenin, se era impensabile il socialismo senza la grande industria, altrettanto lo era senza uno sviluppo delle forze produttive nel settore agricolo e, per quanto riguardava la Russia di quegli anni, né l’una né l’altra erano possibili senza la rivoluzione internazionale. Era fatale che quelle misure di organizzazione della produzione e della distribuzione rimanessero sulla carta. La strada da percorrere era forzatamente un’altra e la si percorse fino in fondo.

Il comunismo di guerra nelle campagne

I fatti hanno sempre il sopravvento sulle parole come la necessità sulle aspettative, soprattutto se le seconde non tengono in considerazione le prime. Ancora una volta resistere significava, nel bel mezzo della guerra civile, mantenere l’Armata rossa, assicurare alla città un minimo indispensabile alla sopravvivenza, significava cioè prelevare con la forza ciò che sarebbe stato impossibile fare sul terreno dello scambio.

Nell’agosto del ’18 il governo bolscevico rese ufficiale una pratica di requisizioni, già praticata da alcuni mesi, con una serie di tre decreti, secondo i quali si dava mandato ai sindacati, ai comitati di fabbrica e ai soviet dei contadini poveri di organizzare delle squadre (al minimo composte da 25 persone) in grado di requisire l’eccedenza del grano prodotto dai kulaki.

I decreti colsero nel segno nel senso che furono l’unica risposta possibile alle gravi necessità del momento anche se le squadre di requisizione non si limitarono ad intervenire nei confronti dei contadini ricchi ma estesero le loro attività anche nei confronti di molti contadini medi. In tempi successivi poi, la requisizione non si limitò più al grano ma sconfinò ad altri generi alimentari come la carne, lo zucchero, uova e pollame. Indipendentemente dalle interpretazioni restrittive o estensive dei decreti sulle requisizioni, il fenomeno raggiunse in pochi mesi dimensioni rilevanti. Nel solo distretto del soviet di Pietrogrado furono organizzate in sei mesi 189 squadre con un impiego di 7.200 uomini. Lo stesso avvenne nel distretto di Mosca e di tutte le altre città industriali.

D’altra parte la statizzazione delle terre tolte ai latifondisti e ridistribuite secondo criteri discutibili, non aveva modificato granché la situazione precedente.

I contadini poveri, circa il cinquanta per cento della popolazione agricola, continuavano a non possedere né terra né strumenti per lavorarla. Tale condizione li esponeva ancora allo sfruttamento dei contadini ricchi. I contadini medi, cresciuti numericamente dopo la distribuzione delle terre sino ad arrivare al 40%, pur possedendo piccoli appezzamenti di terra e quanto di necessario in attrezzi per lavorarla, non andavano molto al di là del proprio fabbisogno. Solo i contadini ricchi potevano essere in grado di avere alle proprie dipendenze dei lavoratori salariati e di produrre una eccedenza da rivolgere verso il mercato.

Le terre, che non erano di proprietà dei contadini ricchi e medi, venivano gestite direttamente dallo stato (Sovchoz) per coltivazioni speciali (lino, cotone, tabacco e bietola da zucchero) destinate all’esportazione, o indirettamente attraverso le comuni agricole.

All’interno di questo quadro la politica delle requisizioni, anche se dettata dalle impellenti necessità del momento, non poteva avere lunga vita.

Innanzitutto occorreva dare, una volta usciti dalle strettoie della guerra civile, un assetto meno precario al rapporto industria agricoltura. In secondo luogo se l’avvio del processo di industrializzazione doveva avere come base di partenza l’incremento produttivo nel settore agricolo, era impensabile che togliendo a chi era in grado di produrre oltre il proprio fabbisogno senza permettergli di rivolgersi al mercato, si potessero creare le premesse di reddito e fiscali per stornare capitali da devolvere all’industria. In effetti la politica delle requisizioni, se sortì qualche effetto positivo nei primi mesi della sua applicazione, già alla fine del ’19 mostrò i suoi enormi limiti. Nonostante il tentativo di controllare centralmente (Sovnarchoz) e dalla base (Soviet locali) l’amministrazione della distribuzione e dei prezzi, l’ottanta per cento, requisizioni a parte, dei prodotti provenienti dal settore privato dell’economia agricola passava attraverso i canali del mercato nero. In relazione al dilagare di questo fenomeno, sempre più contadini, anche a costo di farsi massacrare, correvano il rischio di occultare le scorte rendendo così vana la politica delle requisizioni, ed incrementando al contempo la pratica del mercato nero. L’ultimo effetto, quello certamente più grave, consisteva nella diminuzione della semina e quindi del raccolto. Non pochi tra i kulaki e contadini medi preferivano produrre di meno pur di non vedere vanificato il proprio lavoro e le prospettive di guadagno da parte di un governo che non solo inibiva loro di disporre sul mercato delle proprie merci, ma che addirittura non era in grado di scambiare una quota della requisizione con prodotti industriali.

In ultima analisi il comunismo di guerra, se risolse l’importantissimo problema della vittoria nella guerra civile, produsse ben poco sul piano dello sviluppo delle forze produttive sino al punto di ritrovarsi alle soglie degli anni Venti con una produzione industriale che non era riuscita a superare i livelli dell’anteguerra e con una produzione agricola che andava decrescendo. Fu così che nell’ottobre del 1920 all’VII Congresso Panrusso dei Soviet non si parlò più soltanto di requisizioni, di raccolti e di distribuzione delle derrate alimentari, ma anche di come lanciare la produzione agricola. La NEP era ormai alle porte.

Dal comunismo di guerra alla NEP

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la guerra civile depose un pesante fardello nelle mani del potere sovietico. Il comunismo di guerra aveva come primo obiettivo quello di sconfiggere sul piano militare, prima ancora che politico, la resistenza della borghesia industriale e l’aristocrazia fondiaria nelle campagne. Ogni risorsa e disponibilità economica e di uomini era assorbita dalla necessità di sostenere i settori dell’economia di guerra, nel mezzo del ristagno produttivo generale, di mantenere i settori proletari impiegati in quest’unica attività produttiva, di approvvigionare i milioni di operai e di contadini che costituivano la forza combattente dell’Armata Rossa.

Nella prospettiva di unificazione di ogni sforzo per il raggiungimento dell’obiettivo militare, le virtù politiche, espresse in questo concitato periodo, furono un articolato compromesso tra le necessità della contingenza della situazione e la prospettiva politica generale.

Il comunismo di guerra non poteva che basarsi sull’irrinunciabile perseguimento di tre fattori:

  • la politica delle requisizioni con l’appoggio dei contadini poveri;
  • la concentrazione economica dei settori più importanti della disastrata economia e la centralizzazione politica di ogni aspetto operativo;
  • abbandono delle forme commerciali e monetarie, ovvero del mercato, nel settore della distribuzione.

Sul primo aspetto ci siamo già espressi, val solo la pena di aggiungere che la requisizione forzata non rappresenta una “nuova” categoria economica, ma soltanto un rimedio transitorio legato alla precarietà della situazione di guerra civile.

Per ciò che concerne il processo a sbalzi della concentrazione politica, in questa sua prima fase, occorre sbarazzare il campo da facili equivoci. Troppo spesso ed insistentemente si è creduto di vedere nella politica di socializzazione di quel periodo il consequenziale prolungamento del programma strategico dell’Ottobre. Se è vero che nell’enfasi della lotta civile, nel consolidamento del potere politico, non pochi ritenevano possibile l’immediata sostituzione delle piccole unità produttive con la grande produzione pianificata, è anche vero che, in una fase della lotta in cui il rapporto di forza tra la rivoluzione proletaria e la reazione borghese era ancora da definire, nessuno stato, nemmeno quello proletario, avrebbe potuto permettersi il lusso di rinunciare ad una politica di accentramento.

Lo stesso discorso vale per il terzo problema. La rinuncia alle forme commerciali e monetarie nella distribuzione, la conseguente fornitura gratuita o a prezzi nominali di prodotti agricoli o manifatturieri e lo stesso pagamento in natura all’interno dei settori produttivi, erano dettati più dalle condizioni della situazione generale economica che dalla cosciente volontà di adeguarsi a modelli distributivi che rompessero definitivamente con la realtà sociale precedente. Ciò non di meno, l’illusione rimaneva.

Lenin, già nel maggio del ’18, nel primo periodo della guerra civile, a proposito della questione, non formale ma politica, di quale definizione dare alla costituenda repubblica dei soviet, dovette scendere in campo per tamponare le più esuberanti illusioni che nel loro precipitoso infantilismo si sarebbero di troppo allontanate dalle più prosaiche ma tremendamente reali condizioni obiettive:

L’espressione Repubblica sovietica socialista significa decisione del potere sovietico di attuare il passaggio al socialismo, ma ciò non significa affatto riconoscere che l’attuale sistema economico è socialista (11).

Due anni dopo, con alle spalle un avviato processo di statalizzazione nei più importanti settori produttivi, con una inflazione che aveva imposto, più che consigliato, di recedere dalle pratiche di mercato e di fronte alla necessità di imboccare la strada di una nuova politica economica che fosse in grado di risolvere le devastanti conseguenze economiche del comunismo di guerra, fu costretto a più riprese a tornare sull’argomento illusioni.

L’errore non consisteva certamente nell’aver accentrato nelle mani dello Stato le componenti rilevanti dell’economia, né tantomeno di aver organizzato una struttura statale decisionalmente accentratrice, ciò era nelle necessità delle cose prima che nelle proiezioni politiche, né di aver assecondato un tipo di distribuzione “naturale” in un momento particolarmente delicato dello scontro di classe, ma nell’aver creduto che con queste misure provenienti dall’alto e tolte di peso dalla situazione di eccezionalità che le aveva generate, di poter risolvere, in senso socialista, i problemi della produzione e della distribuzione.

Altra questione era quella dei contadini.

Nel riferirsi a loro, nel decimo congresso dei partito, sempre nella prospettiva di risolvere i nodi ereditati dal comunismo di guerra, dell’isolamento della auspicata rivoluzione internazionale, e dell’arretratezza delle forze produttive, Lenin ritornava saggiamente sulla tattica:

La rivoluzione socialista potrà avere successo in un tale paese solo a due condizioni. Primo a condizione che essa venga sostenuta, al momento opportuno, da una rivoluzione socialista in uno o più di uno dei principali paesi. Come voi sapete, rispetto a quello che era stato compiuto in precedenza, noi abbiamo fatto moltissimo per creare tale condizione, ma siamo ancora lontani d’averla trasformata in realtà. L’altra condizione è un compromesso fra il proletariato che esercita la dittatura e ha nelle sue mani il potere statale, e la maggioranza della popolazione contadina (12).

La citazione è importante, soprattutto per i soliti nipotini di Stalin, in quanto mostra come le preoccupazioni di Lenin non riguardavano l’inutile quanto illusorio sforzo di costruire, senza mattoni, un muro di spalla all’edificio socialista, ma di partire da molto più lontano, ridefinendo i termini dell’alleanza con quel mare di piccola borghesia rappresentata dalla classe contadina, speranza e limite della sopravvivenza dello stesso stato operaio.

Sino alle soglie della NEP, a proposito di alleanze, quando si parlava di contadini, si intendevano i contadini poveri, mentre i medi e i ricchi venivano collocati nella categoria degli avversari di classe. Nella fase montante della rivoluzione d’ottobre, come negli anni della guerra civile, i contadini poveri erano gli alleati “naturali” del proletariato non perché condividessero il programma e le prospettive politiche della rivoluzione, ma perché avevano smesso la loro mentalità piccolo-borghese, individualista nell’economia come nelle aspirazioni politiche, ma soltanto perché nello zarismo prima, come nella reazione bianca poi, individuavano il loro avversario di classe. Il trionfo tattico del bolscevismo consistette proprio nella capacità di legare la spontanea avversione di questa enorme massa di produttori nei confronti del governo precedente e del periodo di una sua restaurazione, nell’alveo degli interessi della rivoluzione di classe. Nella fase della guerra civile, il governo bolscevico arrivò a favorire, accanto ai soviet, i comitati contadini, con una operazione dall’alto per rompere il fronte contadino piccolo-borghese, con il chiaro intento di recuperarne una fetta, la più larga possibile, alla rivoluzione proletaria.

Ma terminata la guerra civile, sconfitti i capitalisti, occorreva rivolgersi al contadiname in altra maniera. «Solo un accordo con i contadini potrà salvare la rivoluzione socialista in Russia, finché la rivoluzione non sarà avvenuta anche in altri paesi» (13), continuava Lenin al decimo congresso. Il problema era di trovare i termini di questo accordo. Non essendo possibile «liberarci da quest’ultima classe come ci siamo liberati dai proprietari fondiari e dai capitalisti, che abbiamo distrutto» (14) occorreva arrivare a degli accordi che permettessero alla rivoluzione internazionale e ai contadini di produrre oltre che per lo Stato, per sé e per il mercato. A questa fase dello sviluppo della situazione in Russia corrispondeva un’accezione del termine contadiname più estensiva. La nuova alleanza doveva tener conto contemporaneamente dei tre fattori fondamentali: isolamento internazionale, arretratezza delle forze produttive, sviluppo delle forze produttive partendo dall’economia agricola. Ne conseguiva che i termini dell’alleanza dovessero risalire almeno di un gradino nella scala dei valori del mondo agricolo. I contadini poveri, privi della terra e del minimo indispensabile in attrezzature per lavorarla, non potevano rappresentare il perno attorno al quale cercare di ridare fiato dall’agricoltura se non avallando il rapporto salariale con i Kulaky, ricreando nelle campagne la situazione pre-rivoluzione. Solo i contadini medi, in parte, e i contadini ricchi avrebbero potuto interpretare l’esigenza del rilancio economico e quindi essere i soggetti della nuova alleanza.

Lenin voleva togliere ogni illusione, sgombrare il campo da ogni equivoco circa la recentissima esperienza del comunismo di guerra e i contenuti della nuova politica economica.

Nel ribadire il concetto alla settima Conferenza del partito nel circondariato di Mosca, nell’ottobre del ’21, diede un altro, tremendo scrollone alle aspettative illusorie:

Ritenevamo che, avendo creato la produzione e la distribuzione di stato questo ci avrebbe permesso di compiere immediatamente il passaggio ad un sistema economico di produzione e di distribuzione diverso dal precedente (15).

Era una pia illusione, bisognava rimettere i piedi per terra e la testa sul collo, era cioè «necessario metterci sul terreno dei rapporti capitalistici esistenti».

Questo terreno era quanto mai pesante e pericoloso. Pesante perché tutta la macchina produttiva era praticamente ferma da quasi tre anni, pericoloso perché ridare fiato alle categorie economiche capitalistiche, anche sotto il vigile “controllo” del governo rivoluzionario, significava mettere in moto una macchina, la quale, venendo meno ogni possibilità di contenimento, avrebbe marciato per proprio conto, trasformandosi da “processo economico controllato” a struttura determinante il sovrastante mondo politico amministrativo. Ma questo era il prezzo che la rivoluzione doveva pagare al proprio isolamento.

Mercoledì, December 20, 2017