Sull'uso dello sciopero del sindacalismo “alternativo”

La nostra vita è scandita da appuntamenti fissi che non possiamo evitare, pena il dover sottostare a sanzioni, vale a dire multe più o meno salate. Tra i tanti – per chi possiede un'automobile – il pagamento del bollo, quello della tassa sui rifiuti, per non dire delle bollette di gas, acqua e luce.

Da qualche anno a questa parte, se n'è aggiunto un altro, puntuale quanto un orologio svizzero, debitamente annunciato qualche mese prima come se fosse un “evento” musicale. Invece, è o dovrebbe essere qualcosa di ben diverso da uno spettacolo, da un momento di leggerezza, qualcosa che assomiglia più a un carico da undici calato in una partita a carte, una “partita” che si svolge però tra le due classi fondamentali, oggettivamente antagoniste, di questa società: la borghesia e il proletariato, il padronato e la classe lavoratrice. Stiamo parlando, naturalmente, dello sciopero generale d'autunno, indetto da un insieme di sigle costituenti il modo dell'autodefinitosi sindacalismo conflittuale o addirittura di classe. Non mettiamo in dubbio, anzi, che spesso il sindacalismo “alternativo” tendenzialmente recluti i propri aderenti tra i lavoratori (maschi e femmine) più sensibili, meno disposti a subire il peso del comando padronale e, quindi, tra i più combattivi. Basta, per tutti, pensare alle lotte degli operai della logistica, lotte che, negli ultimi anni, sono state un esempio di coraggio e determinazione. Non sono stati i soli, ovviamente, anche in altri comparti, in altre aziende ci sono stati episodi in cui la classe operaia (intesa in senso lato) si è spesa con generosità, nonostante i sacrifici, i rischi e... un sindacato sempre attento, com'è nella sua natura, a depotenziare la lotta, a circoscriverla entro il filo spinato (via via più ravvicinato, a causa della crisi) delle famigerate compatibilità del capitale.

Questo vale, in primo luogo, per i confederali, ma anche i suddetti sindacati “conflittuali” o di base che dir si voglia non si possono chiamare fuori, proprio per il loro essere sindacati. Non ci riferiamo solo a fatto che alcuni di loro – il riferimento, in particolare, è al più grande, l'USB – hanno firmato l'accordo sulla rappresentanza del gennaio 2014 (vera a propria gabbia antioperaia), quanto a quello che, per natura, sono costretti ad accettare, al dunque, ciò che passa il convento dell'economia capitalista, che, versando oggi in pessime condizioni di salute, ha pochissimo da dare e, per questo, si dà da fare per prendere tanto alla classe lavoratrice, dal cui sfruttamento spreme la linfa che le permette di campare. Non che, qui e là, il sindacalismo “conflittuale” non riesca a conseguire qualcosa sul piano economico e persino normativo (specialmente se parte da condizioni di supersfruttamento, a di sopra della media), ma, nella sostanza, per il grosso della forza lavoro non può fare altro che limitarsi a proclami, a fare la voce tanto più grossa quanto più la possibilità di ottenere dei risultati è vicina allo zero (a essere ottimisti). Abbassamento generalizzato dell'orario di lavoro con salario aumentato, andata in pensione con trentacinque anni di contributi, abolizione della precarietà e via dicendo: chi non lo vorrebbe? Il punto, però, è se sia possibile ottenere tutto questo senza mettere radicalmente in discussione non l'Unione Europea e i suoi trattati – magari a favore della sovranità nazionale – ma il capitalismo stesso, indipendentemente dalle formazioni statali con le quali si presenta. Non solo e non da ultimo, senza passare dal piano sindacale, che, appunto, non può fare a meno del capitale, lo presuppone e lo accetta (altrimenti, con chi contratterebbe?) a quello politico ossia rivoluzionario. Il primo passo di tale salto qualitativo è, banalmente, quello di dire la verità al proletariato e agli strati sociali declassati o in via di declassamento, dire che la lotta economica, irrinunciabile!, non deve mai perdere di vista l'obiettivo vero del conflitto di classe, cioè la distruzione del capitalismo; dire che, se tutto ciò è vero sempre, a maggior ragione lo è oggi, quando il sistema economico-sociale può trascinare la sua esistenza solo a spese crescenti del lavoro salariato e del pianeta in cui viviamo. E' proprio questo però che il sindacalismo “di base” non fa, anche se, di tanto in tanto, butta nei suoi proclami termini come lotta di classe e rivoluzione. Che alcuni di quei sindacati “alternativi” vantino l'afflusso di nuovi iscritti, non di rado provenienti dalla “Triplice”, è indice allo stesso tempo delle delusioni sparse a piene mani dai confederali tra i lavoratori e della nebbia politica in cui, purtroppo, i lavoratori stessi sono immersi, oltre che di una minore arrendevolezza dei sindacatini rispetto a CGIL-CISL-UIL, benché, va detto, ci voglia poco. Ma la minore arrendevolezza o, se si preferisce, maggiore combattività (a volte più a parole che nei fatti) non va molto più lontano del sindacalismo “tradizionale”, se quello “conflittuale” si premura di avvertire con larghissimo anticipo il padronato tutto che il giorno tal dei tali gli darà battaglia: significa passare al nemico il piano d'attacco. “Attacco” che, per altro, di solito viene condotto (se condotto) in ordine debitamente sparso, anzi, il più sparso possibile, vista la frammentazione delle sigle sindacal-alternative e, quindi, di quei segmenti di classe che le seguono. Bella roba: come se il proletariato non fosse già frammentato, sbriciolato, disperso – sia politicamente, sul territorio, che politicamente - da oltre quarant'anni di attacco (ben più drammaticamente efficace) della borghesia dentro e fuori i luoghi di lavoro.

E non è finita qui, perché, se non bastasse, da qualche tempo alcuni sindacati “di base” si rinfacciano comportamenti reciproci che, se confermati, sarebbero gravissimi, talmente gravi da collocarli “senza se e senza ma” nella categoria dell'infamia. Si parla di accordi sottobanco col padrone per escludere dall'azienda un sindacato concorrente, per gestire la forza lavoro a vantaggio dei propri iscritti e a svantaggio degli altri lavoratori, addirittura di delazione alla polizia e invocazione della stessa per rompere gli scioperi indetti da un'altra organizzazione.

Naturalmente, non sappiamo se e quanto ci sia di vero, per adesso ci “bastano” i limiti politici enormi del sindacalismo “di base”, spacciatore di confusione e di illusioni nella classe, che di tutto ha bisogno fuorché di credere che con qualche sciopero-spot si possano invertire le tendenze di fondo del capitalismo in questa fase storica.

Sappiamo, invece, che non faremo mai mancare la nostra solidarietà di classe a quei proletari colpiti dalla repressione borghese - indipendentemente dalla loro eventuale militanza politico-sindacale – perché attivi nell'opporsi con la lotta ai misfatti della borghesia, come la delegata dello SlaiCobas di Taranto – Margherita Caderazzi - condannata a un mese di reclusione ai domiciliari per le sue lotte coi disoccupati nel 2010. O come i cinque operai della Fiat di Pomigliano colpiti da un “Daspo” di due anni per la città di Roma, colpevoli di aver voluto denunciare al ministro del lavoro la persecuzione subita dalla Fiat e dalle istituzioni democratiche, che con l'ultima sentenza della Corte di Cassazione hanno avallato il loro licenziamento politico. Grave colpa, la loro, quella di essersi opposti al supersfruttamento e – tragico, ma apparente, paradosso – alla sua mancanza, che ha portato al suicidio di un'operaia (non è la sola), buttata fuori in quanto superflua ai fini del profitto. I cinque compagni, secondo il tribunale, sono venuti meno al loro dovere di fedeltà verso l'azienda, obbligo valido anche fuori dal luogo di lavoro, mettendo in piazza il clima da caccia alle streghe in fabbrica.

Forse, siamo già in quel clima di fascismo del XXI secolo che, secondo alcuni, si sta imponendo non col manganello e la camicia nera, ma in maniera “soft”, con lo strapotere manipolatorio dei mass media. Può essere, ma, anche se segnali di un clima nazistoide ce ne sono in abbondanza, ci crediamo poco, perché se un giorno – e noi a questo lavoriamo – la classe dovesse svegliarsi dal torpore in cui è precipitata, la borghesia non esiterà a utilizzare tutto l'armamentario di cui dispone per salvare la “pelle”.

CB

PS. Benché non ce ne sia bisogno, per non dare adito a equivoci e malpensanti, sottolineiamo che il nostro NON è un invito a disertare lo sciopero del 26 ottobre prossimo né gli scioperi dei sindacati “di base”, ma solo a riflettere sull'uso dello sciopero - e sui suoi fini - da parte del sindacalismo “conflittuale”.

Mercoledì, October 24, 2018